Archivio Attivo Arte Contemporanea
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Saluti da...
Mostra personale di Luca Conca
a cura di Michele Caldarelli
interventi lirici di Luigi Picchi

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note biografiche

Antologia critica
testi di:
Rino Bertini | Armando Massarenti | Marco Vallora
dal catalogo: "Luca Conca. Doppio sguardo"

Rino Bertini
L’insistenza dello sguardo

Se la consistenza della pittura ha ancora un significato nel multiforme panorama dell’arte contemporanea, Luca Conca ne interpreta l’aspetto più genuino del gesto e della forma. Lontano dal rifiutare la contemporaneità, intesa come luogo del nostro abitare quotidiano, Luca la elabora in forme del tutto personali che oggi sono divenute la cifra stilistica del suo lavoro. Nei quadri dell’artista anche il fondo diventa uno sguardo e ha pari dignità di chi lo abita. L’obiettivo che Luca si è dato è quello di spersonalizzare e decontestualizzare i due attori della scena, la persona e il paesaggio che la contiene. Nella maggior parti dei casi quest’ultimo è ben riconoscibile, ma nelle ultime opere non è una necessità o forse non lo è mai stata. Il non luogo rappresentato che è l’epifania della contemporaneità ha per Luca la stessa valenza che per le foto d’epoca avevano i fondali di finzione, per lo più richiamanti atmosfere di paesi lontani e orientali. Lo sconcerto che coglie l’osservatore è che quanto più la figura è reale e ben riconoscibile, tanto più il paesaggio è finto e straniante. Lontano dal rifiutare l’aspetto dirompente del mezzo fotografico nell’assordante panorama delle immagini mediatiche, Luca non si rassegna , ma neppure si irrita, consapevole che solo la sua capacità pittorica avrà buon gioco sul mimetismo della fotografia. La sua contemporaneità sta tutta lì. Nell’accettarla, Luca la reinterpreta con i mezzi che ben conosce e la forza del gesto pittorico ne sancisce la sua supremazia. La pittura di Luca non è mai pacificata. A sovrastare e contrastare l’apparente serenità o semplicità dei suoi fondali c’è sempre lo “sguardo in macchina” dei suoi soggetti, sguardo che indaga ed al contempo che cerca un colloquio profondo, prima con l’artista e poi con lo spettatore. Quest’ultimo è invitato ad essere attore a sua volta, attirato dentro il quadro dal richiamo magnetico di quello sguardo che lo vorrebbe lì, presente sulla scena e l’aspetto antinarrativo delle ultime opere dell’artista accentuano questo aspetto di complicità. L’osservatore non può guardare senza che ciò lo riguardi; nello sguardo è messo in gioco perché si rivolge a lui, lo fissa e lo chiama in causa. L’autonomia dello sguardo riunisce e rinchiude il quadro. Inoltre la pittura dello sguardo non può essere soltanto imitazione o piuttosto nello sguardo dipinto la pittura diventa sguardo. Ed esso non esce soltanto dagli occhi ma anche dalla bocca, dalle orecchie, dalle narici, da tutti i pori e da tutte le pennellate del quadro. Non si tratta soltanto dell’organo della visione, ma è tutto il volto che diventa un occhio. Lo sguardo del ritratto non è soltanto la rappresentazione di un soggetto posto davanti al mondo, ma piuttosto la presentazione di un mondo che sorge per la sua stessa visione e per la sua risoluzione. Scavando lo sguardo e svuotandolo, frugando in esso e nei suoi occhi, la pittura lo intensifica e, se necessario, lo esaspera. La vera partita si gioca nel sapere come la vita dello spirito si raffigura e si sfigura smarrendosi nel suo sguardo.

DOPPIO SGUARDO E SOMIGLIANZE IMPERFETTE.

Alla domanda di come rappresentare l’altro e come dargli voce risponde fra le tante forme il tema del doppio che, nella sua ambiguità permette una particolare costruzione e interpretazione dell’istanza dell’altro. Innanzitutto il doppio, che sia specchio, ombra o sosia, rappresenta l’altro come figlio e prodotto dell’ Io, trasformando il rapporto tra un soggetto e un altro in un legame in cui i due si incontrano. Si tratterebbe quindi di una negazione dell’altro o meglio di un tentativo di accogliere l’alterità solo in forma camuffata. Il grande tema del doppio permette di assolutizzare ed estremizzare il grande problema del rapporto con l’altro che viene così proiettato nel microcosmo di un individuo impegnato a vivere due esistenze separate. Un’identità scissa e frantumata si troverà non solo ad avere rapporti contradditori con ciò che pensa essere il mondo esterno, ma anche nella situazione paradossale di non poter distinguere tra l’altro e lo stesso, in quanto già impegnata in un continuo processo di traduzione interna tra le diverse parti. Tale sforzo potrebbe sfociare, nel caso di un raggiunto equilibrio tra le parti stesse, in un processo di sintesi dialettica che indica un atteggiamento di assimilazione dell’alterità come strumento per arricchire l’identità di partenza. Il più delle volte il doppio allude ad una crisi della soggettività. L’Io viene rappresentato come tutt’altro che un punto fermo e sicuro, anzi appare piuttosto mobile e oscillante, dal momento che trasforma ciò che un tempo appariva familiare in un qualcosa di sinistro e perturbante. In effetti l’altro è per noi qualcosa di costitutivo, una dimensione ineliminabile della nostra soggettività. Dunque nel doppio quella dimensione di alterità che viene assimilata nella soggettività ha la funzione essenziale di indebolire quell’identità che troppo spesso diamo per scontata nel momento in cui ci mettiamo a leggere il mondo. La ricerca dell’icona assoluta e quindi del doppio perfetto ha da sempre caratterizzato il mondo dell’arte. Lo specchio prima e la fotografia poi quale perfezionamento e apoteosi del primo, ci hanno dolcemente cullato nell’illusione della mimesi assoluta. Ma sappiamo bene che lo specchio cattura e nello stesso tempo trasforma , imbriglia, inghiotte, digerisce, restituisce qualcosa di altro. Riflette ma spesso deforma. Per Baltrusaitis lo specchio “non ci restituisce la realtà ma la frantuma e, con i suoi frammenti ricostruisce un nuovo mondo”. Lo specchio insomma crea e quindi tradisce e non solo perché dà l’impressione di rovesciare il mondo scambiando apparentemente la destra con la sinistra. Ma perché fa la parodia delle cose, mascherandola da verità. Lo specchio è rivelatore sì, ma dell’invisibile. Non tanto perché riesce a mostrarci quel lato essenziale del nostro corpo, il volto, che senza di lui ci resterebbe ignoto. Ma anche perché può far girare il nostro sguardo oltre gli spigoli o dietro la nuca consentendoci di “vedere di più”. Tornando al doppio, possiamo affermare che esso non è l’identico. Esso tollera variazioni, modifiche impercettibili, immette silenziosamente il diverso nell’uguale; e questo lo rende perturbante. Ne è esempio puntuale la somiglianza imperfetta dei gemelli che è uno dei temi peculiari di questa mostra che ricerca nella sua globalità un concetto più allargato dell’idea del doppio. Luca Conca azzarda una sfida molto forte che non è riferita ad un concetto di specularità, ma gioca piuttosto sul discorso dei rimandi. Questi non sono legati ad un’idea semplicemente pittorica e per sua natura mimetica. Quella gemellare è uno dei tanti modi per declinare l’idea del doppio anche se inevitabilmente quella che all’osservatore si rivela in modo più smaccatamente riconoscibile. Un altro approccio all’idea del doppio è un ragionamento pittorico sul concetto di somiglianza, utilizzando la pittura come linguaggio, come fine e mezzo allo stesso tempo. Il doppio è utilizzato altresì come punto di vista moltiplicato per uno stesso soggetto allorchè esso è mostrato di fronte piuttosto che di fianco o da retro, ed il gesto pittorico casuale acquista corpo e una pretesa di realtà e tridimensionalità. E’ evidente, poi, che il tema gemellare è la base di partenza e il fulcro di questa mostra. Il suo autoritratto affiancato a quello del fratello- gemello Giuseppe catalizza l’attenzione dell’osservatore. E questa volta è la sua identità che “viene messa in discussione da un doppio che non è immagine riflessa allo specchio, ma ha una sua autonomia e una sua personalità, un doppio al quale si è indissolubilmente legati da un profondo vincolo di sangue”. Le altre copie gemellari così come gli altri soggetti ritratti appartengono ad una cerchia amicale o famigliare il che permette di connotare questa esposizione come l’espressione più sincera di uno sguardo privato e perciò più intimo. Tornando al tema dell’identità gemellare, si parla in psicologia della costruzione del sé da cui non è scindibile la sua rappresentazione. La rappresentazione di sé, l’immagine di sé, è per ognuno l’insieme di un vissuto profondo emotivo e di una esperienza visiva. La costruzione del sé è in rapporto alla costruzione dell’altro separato da sé, e quindi implica un corretto processo di separazione-individuazione. Per i gemelli monozigoti la costruzione della propria identità, emersa dagli esperimenti con gli specchi, è questione ben più complessa poiché un gemello monozigote deve costruire il proprio doppio, l’immagine di sé, staccandosi dal suo doppio gemellare, dal cogemello e distinguendosi da lui; e a questo proposito si può osservare un ritardo. Questo sarebbe in rapporto con la somiglianza fisica che complica la costruzione dell’immagine del proprio corpo, per la contemporanea necessità di appropriarsi e identificarsi con l’immagine e nello stesso tempo staccarsi, distinguersi da altre due immagini: quella reale e quella speculare del fratello. I gemelli monozigoti sono come prigionieri di un gioco di specchi: il doppio gemellare si cambia in doppio speculare e, come in un gioco di specchi, si confondono. Si pensi come per un individuo sia insopportabile il pensiero di avere un sosia, e come per lui questo costituisca un attentato alla propria identità, alla propria individualità: avere un sosia, per i gemelli monozigoti, divenuti coscienti della loro uguaglianza attraverso la testimonianza degli specchi e degli altri, è invece la “norma”. La costruzione del sé è un processo lungo e impegnativo in ogni individuo, in cui, se marginale diventa l’immagine che ci rimanda lo specchio, importantissima e irrinunciabile è l’immagine che altri ci rimandano di noi: noi siamo quello che gli altri pensano e vedono di noi, e se per un nato singolo diventa importante la propria immagine che gli rimanda la madre, per un gemello è fortemente strutturante la propria personalità l’immagine che gli rimanda il cogemello. I gemelli monozigoti sono gli ultimi a sapere di essere “uguali” e non si attendono uguaglianze né per l’aspetto esteriore né per le affinità profonde. La coscienza che l’altro è uguale a sé sopraggiunge più tardi ed è il riflesso dell’uguaglianza percepita e sottolineata dagli altri; da essi i gemelli ricavano l’informazione di essere uguali, poiché il viso è l’unica parte del corpo che ciascuno non può vedersi per confrontarsi con l’altro, a meno che questo volto non venga rimandato dallo specchio e riconosciuto come proprio. Riconoscere che l’altro è uguale a sé comporta comunque avere di sé un’immagine precisa, ed è legato alla presenza di una sorte di doppio in cui ci si riconosce e da cui nello stesso tempo ci si distingue e ci si può staccare.

Rino Bertini Nato nel 1955 a Sondrio, dove vive e lavora. Medico, decide di approfondire la passione e l’interesse per le arti figurative e per il cinema laureandosi al DAMS (Discipline Arte Musica Spettacolo) di Bologna nel 1998. In collaborazione con il C.R.A.S. promuove e partecipa a rassegne e dibattiti su registi e movimenti cinematografici. E’ coautore con Maurizio Gianola del Corso di Educazione all’immagine tenuto a Tirano nel 2001, dei Laboratori di cinema tenuti a Sondrio nel 2002 e nel 2004 e della collana “Sguardi rubati. Nuovi percorsi cinematografici”. Per la Galleria del Credito Valtellinese ed il Museo di Storia e Arte di Sondrio ha curato le mostre I giardini di Afrodite. 6 artiste nel segno del mito nel 2004 e Daniele Pigoni. L’arte del viaggio nel 2005. Per il Comune di Chiuro con la Biblioteca Comunale Luigi Faccinelli e per la Galleria d’arte Bergamo ha curato la mostra Roberto Crippa. Sculture nel 2005 e 2006. Presso il Castello Visconteo di Trezzo d’Adda ha curato con Vania Frare la mostra dalla Terra…alla Terra con opere di Alfredo Colombo, Dolores Previtali e Paola Ravasio nel 2006.

Marco Vallora
Luca Conca

Ancor prima di scaricare, a fatica, dal computer, la spaesante icona del Mare di Luca Conca (o forse dovrei dire: i Mari) ho provato a pensare: forse la questione del doppio, visivamente, è anche -o solo- una questione di diottrie (lo sappiamo: quelle turbe ottiche che hanno notoriamente “macchiato” la carriera pittorica di Degas e di Monet). Di fasamento: come se i gemelli, nella vita, si rivelassero delle allampanate diapositive, che camminano appaiate, ed ogni tanto svoltano, svariando a forbice, iscrivendo -sulla tela della vita- l’istante imprevedibile dello sgomento, dell’abbandono. Il ricciolo ventoso (guardo adesso un’altra tela, dedicata alle Gemelle) la piega imprevista, della piccola paura. “Questa volta te la sei proprio cercata tu!”, scherza l’amico Velasco, riportandomi ai tempi della tipografia, che non ha doppi, ma solo il margine obbligato dell’immagine perfettamente sovrapposta: il tempo che s’è fatto scadenza, clic temporaneo. Non mi capita mai di scrivere di opere senz’aver visto le opere, dal vivo, ovviamente: non varrebbe nemmeno la spesa di scriverlo, se non avessi certi colleghi che... ma questa volta la colpa è diventata, stranamente, felix. Perché, appunto, ho “visto” mentalmente questi quadri dapprima nelle parole di Velasco, uno dei pochi pittori generosi, che si occupa e preoccupa dei suoi vicini, magari anche fin troppo prossimi; e poi dal denso testo di Conca stesso. E allora, alla parola-sesamo di: “doppi”, pronunciata da Velasco, come potevo rimanere insensibile, distratto, sordo? Ho detto, immagino saltando su, come se avessi incontrato un sosia stanco, denutrito, per la via, va beh, devo vederli. Poi è partita la trafila moderna di telefonate, fax, cellulari, angeli custodi, e-mail, penne elettroniche, adobe photoshop, reader, acrobat images, che so, ecc., manine eccitate, clessidre scodinzolanti, cagnini con la lingua di fuori... ed ecco affiorare poco a poco, pesantissimi e riottosi (intendo in senso elettronico) come provenendo dalla nebbia grigiastra della tecnica cisposa, capelli doppi, jeans doppi, doppie Nike, sguardi doppi, perduti- versati nel nostro sguardo smarrito. E così, alla fine, non va nemmeno troppo male vederli (benjaminianamente) deformati e duplicati, questi nasi e gemelli, un po’ distorti, brinati, resi strabici dall’esorbitante definizione informatica. Come se il veder doppio, la duplicazione mail, il viaggio attraverso la subacquità dello schermo mugolante, avesse regalato un fascino ulteriore a queste strane tavole molti plicanti e specchiate. Ho detto “moltiplicanti” e non moltiplicate, proprio perché la tecnica simulata dell’acquerello liquido offre come una patina fresca e replicante, frequentativa, a queste fisionomie catturate, che svirgolano appunto sulla via della mobilità e dell’eterno impermanente. Esser gemelli, ovviamente, non lo si è una volta sola. Ma mi piace anche questa malattia che prende l’artista, ad un tratto assalito dalla febbre galoppante del veder doppio dovunque (gli specchi dovrebbero riflettere un poco prima di riflettere, sentenziava Cocteau). Doppio il mare, doppi gli amici, doppie le coppie, doppio il padre, doppio tutto. Persino il Mont Saint-Victoir di Cézanne, che qui si sdoppia, come in un effetto ottico straniante, aperto, scotennato. Ma mi attrae soprattutto quel padre, sorpreso dal romanzo insulare del dna familiare, che aggalla accanto a sé, come in una levitazione orientale, color di cicca. “Il pensiero nasce sempre dal due”, sosteneva Nietzsche... che sia vero anche per l’immagine-immaginario? Ho passato anni, di tesi, ad analizzare le figure del doppio, del perturbante, del sosia, non soltanto nel mondo romantico e gotico-nero, ma trascorrendo dal Don Chisciotte alla Principessa Brambilla di E.T.A. Hoffmann, dal Doppio Sogno di Schnitzler agli specchi vuoti e generosi di poesia di Mallarmé, agli esperimenti-trucco di Godard. Anche a me interessava lo spazio vuoto, che si disegna dietro i doppi, quando il doppio decide di rompere l’esattezza duplicata dell’illusione speculare, e se ne va per la sua strada, ratto per il mondo, come succede al Chisciotte secondo, al doppio illegale di Avellandeda, inquietando anche il suo stesso autore. E anche lì, si trattava d’individuare tracce di metanarratività, là dove nessuno si sognava di poterle già trovare. Come se la diegetica ombra mancante del povero personaggio -disertato dal suo doppio- si riempisse di riflessi- riflessioni auto-rispecchianti e di deformate spie anamorfiche, che ragionano introspettivamente e auto-criticamente sopra il testo stesso in cui si trovano a vivere. Vedo oggi qui che Luca Conca scrive qualcosa di analogo: “Ragionando sul tema del doppio, e sul concetto di somiglianza, la pittura diventa un linguaggio e le declinazioni possono essere molte. Una delle prime è stata considerare un quadro come esempio di meta-pittura: ho dipinto un semplice paesaggio, appunto 23 dichiaratamente dipinto, senza troppi intenti realistici, l’ho appeso alla parete dello studio, rendendolo “quadro”, e infine l’ho ricopiato, su una tela delle stesse dimensioni. - O ancora, dopo aver dipinto una montagna in primo piano, ne ho dipinta una identica a fianco; l’aspetto oleografico dell’immagine, in questo modo si perde e si nega anche l’aspetto naturalistico, arrivando ad un risultato quasi astratto. Ciò che conta, appunto, è l’idea”. In questo, sono ovviamente d’accordo: platonicamente, si dipinge sempre un’immagine di un’immagine di un’immagine, questo forse è sempre stata la pittura, anche senza disturbare il povero sempre-disturbato Leonardo. Come non ricordare il famoso saggio di Otto Rank sul doppio, e Freud che discetta di “perturbanti”, di Umlickheit, che bella questa parola, per me, che viene dalla notte della tesi, devo anzi ricentellinare la grafia, allora tante volta usurata. Il non-familiare: e che cosa c’è di più famigliare invece d’un gemello (ci metto persino la “g”)? Chissà se anche i gemelli tra loro devono cercarsi, per riconoscersi, ogni volta: che golosità, pensare che anche loro si sbaglino, tra le pareti domestiche, e si raccontino storie sfasate, come capita tante volte agli amici di omozigoti identici, e poi c’è da vergognarsi a vita, come d’aver versato lo stesso vino promiscuo, in otri sbagliati. Penso a Rembrandt, che si faceva dipingere i suoi autoritratti dai suoi allievi, e penso a Luca Conca, che decide un giorno di ritrarre il suo proprio fratello, e poi di trarne un suo autoritratto, come Dio-Eva, dalla costola di Adamo. Non dipingendo se stesso, ma l’altro di sé nell’altro: enigmistica del cercate l’errore. Funziona, così, quel loro essere sbilenchi, sbalestranti, smarriti, nella tela omonima, come dopo un match di pugilato ormonale: sul prato fittizio della loro eguaglianza anatomica. Ultratterestri perplessi, planetari, il braccio fraterno che quasi si tocca, come per una solidarietà disperata, da sei ancora lì notturno. I gemelli non se ne vanno, persistono, duplicati sulle finte immagini inchiodate poliziescamente alle pareti, e questo dà un brivido, un turbamento come di sguardo sfalsato. Per questo un poco vibro, inquietandomi,, quando leggo che il pittore cerca disperatamente di selezionare e dipingere proprio quei “dettagli che sapevo renderci diversi”. Ancora Conca: “Penso che spetti alla fotografia o alla narrativa, interpretare una fortissima somiglianza fisica e declinarla nei suoi aspetti caratteriali e psicologici. Alla pittura è possibile affidare la casualità del fare e la causalità del ri-fare. Dipingendo un soggetto per la prima volta, ci si può affidare anche ad una percentuale di casualità; ma nel momento in cui lo si replica, tutto diventa voluto, intenzionale, causale. Così facendo si può decontestualizzare l’immagine, usando la pittura come mezzo e fine allo stesso tempo. Sono la copia, la replica, la citazione che mi interessano, e non la specularità o peggio la clonazione di un’immagine”. Curiosamente, il computer fa di questi scherzi, tra le parole tracopiate di Conca, s’inserisce un altro testo, sulla fotografia africana, che mi era utile per un altro intervento. Non posso non notare la coincidenza di quante volte, nel testo di Jean-Loup Pivin, ritorni la parola “doppio”, “doppi”: almeno una ventina. Il testo s’intitola “Totem e Icona”, e pure Conca scrive: “Nel dipingere le altre coppie di gemelli, ho mantenuto invariato l’impianto del primo quadro, con i due soggetti a figura intera, in piedi e frontali, uno accanto all’altro. Così facendo l’identità propria di ogni gemello è cancellata, non solo dalla somiglianza, ma anche da una posa che li rende “ideali”, iconograficamente vicini alle pose ieratiche dell’arte bizantina, o alle cariatidi greche”. Icone, appunto, riquadri mobili del guardare: scatti progressivi della mente. Forse il gemellaggio è un’illusione ottica, “Proprio perché l’introspezione psicologica non mi interessa, per alcune coppie di gemelli ho lavorato su foto, e non da posa. Anzi, non nascondendo la fonte di partenza, ho messo il gioco fotografico al servizio dell’idea”. Scrive Pivin, nel capitolo “Totem di carta”. “La photographie en Afrique peut échapper à la vision du souvenir du réel mais incarner une vision principalement iconique de la photographie (la réalité?). En se débarrassant de sa valeur documentaire ou sentimentale, l’image photographique deviendrait en soi non pas la représentation de la réalité, mais le double social et spirituel du sujet photographié”. La pittura come doppio inquietante della quietudine fotografica? Posso dire che sono contento d’aver trovato almeno questo “doppio”?. 

Marco Vallora, nato nel 1953 a Torino, dove si è laureato con una tesi sul metaromenzo e l’autorispecchiamento nelle arti. Ha lavorato come critico cinematografico, storico dell’arte e consulente presso la casa editrice Einaudi. Ha tradotto e prefato libri di cinema, semiotica, letteratura e arte. Collabora a diverse riviste tra cui “Paragone”, “L’indice” ecc. Quotidiani e settimanali. Con Gae Aulenti ha scritto Il Quartetto della Maledizione, sulle strutture del melodramma. Si è occupato di fenomenologia degli stili e del problema estetico del rapporto tra le varie arti. Ha collaborato all’Enciclopedia Utet del Novecento, alla Storia del Teatro, a cura di G. Davico Bonino e al Dizionario dei Personaggi della Letteratura Francese della Utet e della Storia della Letteratura Italiana Giunti, a cura di E. Siciliano. Ha dedicato saggi a Barthes, Proust, Butor, Picasso e le avanguardie, Ejzensejn, Balasz, Godard, Roberto Longhi, Giovanni Arcangeli, Gianni Testori, Schnitzler, Gide, Cocteau, Simenon, Pasolini, Zavattini, Palazzeschi, Paul Morand, Malerba, Valery Larbaud, Paul Léautaud, Lalla Romano ed altri. Ha curato mostre o presentato, in catalogo, artisti come Salvator Rosa, Cézanne, Manet, Monet, Giacometti, Vallotton, Soutine, Schoenberg pittore, Carrà, Casorati, De Chirico, Savinio, De Pisis, Maccari, Manzù, Burri, Arturo Martini, Sutherland, Ferroni, Clerici, Carol Rama, Guccione, Mattioli, Congdon, Afro, Marca-relli, Vallorz, Vignozzi, Pericoli, Giancarlo Vitali, Forgioli, Mitsouchi, Music, Ruggeri, Francese, Zigaina, Tom Corey, Armodio, Zavattini, e tenuto a battesimo alcuni giovani pittori, come Velasco, Papetti, Pignatelli, La Casella, La Cognata, Frangi, Martinelli, Guida e molti altri. Attualmente è critico d’arte per La Stampa e lo Specchio. Insegna Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Urbino ed è stato chiamato dal Prof. B. Adorni per tenere un corso di estetica e arte figurativa alla Facoltà di Architettura di Parma. Al Politecnico di Milano tiene corsi di Estetica dal 2003.

Armando Massarenti
Somiglianze di famiglia

Mettere accanto due figure umane assai simili tra loro induce uno stato di disorientamento in chi guarda. Ci si chiede: 1) si tratta della stessa persona in due momenti espressivi diversi? 2) oppure si tratta di due persone diverse ma molto somiglianti? Solo il titolo dell’opera offre la risposta. Ma il titolo, in genere, lo si guarda dopo, quando il nostro disorientamento si è già manifestato. E leggere a chiare lettere che si tratta di «Gemelle», o di «Gemelli», non lo fa sparire del tutto, anche perché non è affatto chiaro se questi “gemelli” esistano veramente o se siano il prodotto di due ritratti leggermente diversi di una medesima persona. O entrambi frutto della fantasia del pittore. Del resto due gemelli “reali” non sono mai davvero identici. Sono «quasi» identici. E quel «quasi» implica abissi di ambiguità. Se però il «quasi» non ci fosse, un’identità così estrema potrebbe apparire molto disturbante. È per questo che la clonazione è percepita da molti con orrore. Si tende a pensare che essa produca individui perfettamente identici. Idea inquietante, ma per niente vera. I cloni sono sempre esistiti, e sono appunto i gemelli omozigoti. Ma non è di questo che Luca Conca ci vuole parlare in queste sue opere. Non so se ne sia consapevole, ma ciò che egli mette a fuoco è innanzitutto il meccanismo dinamico del riconoscimento dei volti. Non che la sua poetica sia fatta solo di questo. Però sarebbe incomprensibile se non ruotasse proprio intorno a questo processo cognitivo, che ci riguarda tutti, quasi in ogni momento della nostra vita. Lasciate perdere per un momento i gemelli e pensate a come vediamo i volti degli altri. Non li vediamo mai nelle stesse condizioni di luce, né da una medesima angolazione. Lo sapeva bene Leonardo, che appunto cercava di coglierne l’essenza ritraendoli in diversi momenti del giorno e nelle pose più diverse. E l’essenza stava proprio nel loro cambiamento e, più in generale, nel movimento. È così che nella vita quotidiana riconosciamo le altre persone, nonostante esse si spostino e mutino nel tempo. Senza peraltro renderci conto di quanto incredibile sia tale nostra capacità, questo nostro essere, in senso lato, «fisionomisti». Non di rado ci capita di ricordare di più l’aspetto fisico delle persone dei loro nomi, persino quando il tempo le ha mutate profondamente. Se incontriamo qualcuno che abbiamo già visto, magari molti anni prima, ci chiediamo appunto: «Noi ci siamo già incontrati, vero?». C’è nel nostro cervello, in condizioni normali, un preciso meccanismo deputato al riconoscimento delle persone. Qualcosa che ci convince che colui che abbiamo davanti è proprio lui e non un suo sosia. Se effettivamente avessimo davanti un sosia, questi dovrebbe essere molto abile a imitarne anche il più sottile atteggiamento, dalla postura al modo di gesticolare e di camminare. Ciò che riconosciamo come una persona, proprio “quella” persona, è un insieme composito di elementi che costituiscono una sorta di continuum qualitativo. Quando il meccanismo non funziona sorgono strane patologie, come quella studiata dal neurofisiologo Vilayanur S. Ramachandran in alcuni pazienti divenuti improvvisamente incapaci di riconoscere la loro stessa madre. In che senso non la riconoscono? Proprio in quello che dicevamo. «Sì - dicono — sembrerebbe proprio lei. L’aspetto esteriore mi indurrebbe a crederlo. Ma il suo modo di gesticolare, o di parlare, non mi convince affatto. Anzi mi induce a credere con certezza che non si tratti di lei». E non c’è modo di convincerli del contrario. È una situazione drammatica, perché loro vorrebbero avere davanti a sé la loro madre, ma non vedono altro che un’impostora. «Potrei disegnarvi una faccia. Poi (...) disegno un’altra faccia uguale. Voi dite, non è la stessa faccia: ma non sapete dire se gli occhi sono più vicini o la bocca più lunga». Così osserva Ludwig Wittgenstein (in Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa). Infatti, non lo sappiamo dire, se ci concentriamo sui particolari (sulla bocca e la distanza degli occhi) perché appunto ciò che percepiamo è la forma come organizzazione complessiva. Per Wittgenstein questo vale per ogni percezione, ma non a caso per spiegarlo usa proprio la metafora del volto: non un insieme di dettagli, ma una fisionomia, una configurazione di senso irriducibile a singoli particolari. Proviamo a immaginare come procede Luca Conca. Anche lui dipinge un volto. Poi ne dipinge un altro. E noi che cosa diciamo? Che non è lo stesso volto? Conca ha un fratello gemello. In una delle sue opere ha fatto così. Prima ha ritratto suo fratello. Poi, sulla base di questo primo dipinto, a fianco, ha realizzato il proprio autoritratto. E noi diciamo ancora: non è la stessa faccia. Ma non sappiamo dire perché.

Armando Massarenti (1961) è responsabile della pagina “Scienza e filosofia” del supplemento culturale “Il Sole 24 Ore- Domenica”. Insieme a Gilberto Corbellini e Pino Donghi ha curato e in parte scritto il volume “Biblioetica. Istruzioni per l’uso” (Einaudi, 2006), un dizionario di bioetica, dal quale Luca Ronconi ha tratto l’omonimo spettacolo teatrale andato in scena a Torino per il progetto Domani delle Olimpiadi invernali 2006. E’ autore del volume “Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima” (Guanda, 2006), che ha vinto il Premio filosofico Castiglioncello 2007 e il Premio di saggistica “Città delle Rose” 2007. Dal testo verrà tratto uno spettacolo teatrale per la regia di Claudio Longhi.

I testi di: Rino Bertini | Armando Massarenti | Marco Vallora
sono stati tratti dal catalogo pubblicato per la mostra
"Luca Conca. Doppio sguardo" - giugno 2007
Galleria Credito Valtellinese, Sondrio, Palazzo Sertoli

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