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Primi appunti nel metodo di Silvia De Bei
di Roberto Sanesi

"Calla Palustris": organismo in crescita, semplificato nelle sue masse di azzurri fondi, un po' opachi, degradando in tonalità di verdi, di grigi toccati da una luce notturna, lunare, ogni sua articolazione disegnata con una esattezza essenziale, matematica, alle soglie di una astrazione che si avverte necessaria non per superamento della materia, anzi per accentuazione della sua plasticità, per rilievo dei suoi snodi interni; e forse per trattenere, con effetto di stupore quasi "metafisico", l'emozione di un movimento altrimenti, forse, inquietante, disordinato. La densità dei volumi coincide con il colore, in blocchi che si articolano in una sorta di scansione tonale cui spesso fa da contrasto, segnalando le relazioni con lo spazio (il dentro-fuori, la prospettiva, il piano d'appoggio, perfino il vuoto: a volte ambiguamente), una certa rigidità marcata del segno compositivo. Ogni riferimento naturalistico resiste per costruzione, si espone in quanto metodo. E si capisce quanto possa avere influito, su questa pittura, la lezione di disciplina di Veronesi - per quanto si possa supporre un ricordo, mai imitativo, magari di Cézanne, delle intenzioni cubiste di accerchiare fenomenologicamente un oggetto, di mostrare la molteplicità formativa. Contro ogni apparenza, non c'è freddezza nella pittura di Silvia De Bei, c'è rigore dello sguardo. Uno sguardo che lavora per "riduzione", cercando non di "riprodurre" effetti, impressioni, ma la necessità del loro apparire. D'altra parte, Silvia De Bei dipinge dal vero, lo affronta con impeto, lo cerca con un disegno che è certo sapiente (di studio, di esperienza) ma non preoccupato, all'inizio, di dare forma. Anzi, per fasi successive, "impreciso" per immediatezza dell'impulso, fatto di tentativi, di approfondimenti, sensibilissimo ai dettagli segreti e però ancora informi, in modo che si direbbe espressionistico se già non si intravedesse una disposizione a comporre per blocchi. L'analisi è successiva, si rivela come processo di geometrizzazione. Dimenticato, messo fra parentesi per consentire allo sguardo la massima attenzione, il soggetto - un fiore, un paesaggio, un nudo femminile, una serie di forme decó da cappello, un mazzo di saggina, una lampada, un vaso - si oggettivizza esponendosi in quanto sistema e se assume un'apparenza innaturale è solo per mostrare le condizioni alle quali la natura diventa accessibile. Probabilmente è per questo che gli oggetti di natura, organismi vivi, e gli oggetti inanimati, tendono in certo senso ad assomigliarsi in questo congegno di formazione. Per quanto la pittura di Silvia De Bei rifugga da ogni tentazione metaforica, se in opere quali Sorgo colorato, o Amaca, Lingue di fuoco, Petalo, ecc. nella loro orizzontalità di forme solidificate, siamo spinti a intravedere indifferentemente paesaggi o corpi distesi, ciò dipende dal fatto che resiste in loro una allusività fortissima a un principio naturale. Ci sono due "appunti" (così sono definiti, con evidente distacco dal soggetto vero) che possono utilmente essere comparati per comprendere meglio ciò che intendo dire: uno è del tutto privo di titolazione, l'altro si espone, un po' a sorpresa a un primo sguardo, come Iris. In entrambi i casi il fondo è grigio, uniforme: uno spazio indifferenziato che possiamo presumere vuoto, oppure che sappiamo essere un pieno sul quale poggiano quattro forme solo perché anche l'ombra vi si precisa, ombra densa, netta, che prende a sua volta una forma, ma autonoma, non tale comunque da svelare in alcun modo cosa siano, esattamente, gli oggetti. Nel caso di Iris ci rassicura il titolo - non le forme, non il colore - e così lo spettatore è indotto a rintracciare che cosa distingua, nella identica geologizzazione dei corpi, nella durezza del segno che li delimita, un organismo vegetale così ricco di intensità lirica nell'immaginario di ognuno, da alcune forme enigmatiche, dotate di un peso, isolate su un piano, apparentemente destinate all'immobilità. Sappiamo (perché le abbiamo viste nello studio della pittrice, e a volte in modo più esplicito in altri quadri) che si tratta di forme per cappelli, di legno, e possiamo anche ammettere, riconoscendole, che portano in sé la memoria di un tempo, di un gusto - è per ragioni aggiuntive che le riammettiamo al contesto visibile. Ma il problema non è di verosimiglianza. Queste quattro forme riguardano lo spazio, lo marcano, vi segnano intervalli, indicano una prospettiva, sono immobili. Iris è una concatenazione di "nuclei" che intuiamo di sostanza viva a causa di un movimento di aggregazione che si sviluppa in direzioni diverse, elementi di un unico corpo in formazione - che sarà iris, che assumerà il suo colore appropriato, la sua forma riconoscibile, ma che al momento ci avverte solo della sua spinta interna: peso, densità, volume, si esprimono in forma di diagramma, secondo una logica costruttiva, non imitativa. Silvia De Bei tende a dipingere dei dati oggettivi, l'architettura delle forme, testardamente fedele a un modello vero, quasi indifferente alla sua apparenza immediata. Si interessa alla struttura, analizza in certo senso le cause, non gli effetti. Evitando l'illusionismo, tende a evitare ogni tipo di interferenza "simbolica". I suoi paesaggi sono corpi, i corpi paesaggi, e gli uni e gli altri un rigoroso schema di organizzazione degli elementi plastici. Con altrettanta convinzione, lo sguardo si attiene agli oggetti, non li nasconde, non li astrattizza. D'altra parte, se si ripercorrono tutti i passaggi che hanno condotto a queste soluzioni, si noterà una coerenza fermissima con le prove iniziali, di ordine figurativo, di ricerca tonale, di espressività contenuta, sobria. I suoi maestri erano stati Funi, Carpi, in un contesto di sperimentazione fortemente intriso di motivazioni etiche. E' forse per questo, malgrado le distanze prese dalle tentazioni "espressionistiche", o metaforiche che resiste nella sua pittura un'intenzionalità di rappresentazione di significati non estranei alle ragioni emotive, per quanto misteriose esse rimangano di fronte a qualsiasi oggettività. Che ne è infatti toccata. Totem, qualunque siano gli oggetti che lo compongono, finisce con l'apparire un emblema di forze femminili, una specie di stele polimastica contro una forma di luce che si direbbe alludere a quella di un diamante, con conseguenze interpretive notevoli. Ma è forse un'opera come Sospensione che più di altre esemplifica la persistenza di una visione analogica più complessa del prevedibile. Sospese appunto in uno spazio interrotto solo da due fasce di colore a contrasto con il fondo, due figure femminili date come sempre per blocchi, con risalto plastico, accentuano la loro valenza di simbolo per parziale metamorfosi vegetale. La testa, non solo la testa comunque, è composta di fiori come innestati al corpo, che è attraversato verticalmente da uno stelo la cui energia fiorisce non a caso in direzioni opposte. In Eremorus e nudo la relazione è la stessa, come accade anche altrove, e non è questione descrittiva. Queste efflorescenze in accordo con il corpo non può sfuggire che siano impostate alla maniera di un "mandala", schema di continuità dello spazio, segnale di un principio ciclico. Che in altre opere , per esempio Funamboli, ma anche Stele, o Rifrazione, funziona per sfaccettature, a specchio, lasciando al colore il compito di indicare gli snodi, le connessioni, i ritmi, e ogni allusione non più solo formale.

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