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Jean Corty
a cura di Michele Ferrario
Ed. Museo d’Arte
Mendrisio 1998
110 pp. 22 x 24 cm.
ill. b/n e col.
Proseguendo nel programma di mostre dedicate ad artisti che hanno operato in Ticino, o che sono entrati nella storia dell’arte di questa regione, il Museo d’Arte di Mendrisio ha proposto (nei mesi di settembre-ottobre 1998) un’ampia scelta di opere, note e meno note, di Jean Corty (Cernier 1907- Mendrisio 1946). La mostra a cura di Michele Ferrario ha inteso attirare nuova attenzione su lavoro di Corty e riavvicinare il pubblico a una figura conosciuta più per le sue tormentate vicissitudini che per la sua arte. Un caso singolare, quello di Corty, ultimo bohémien inquieto, che molti ancora ricordano come "una testa calda", il classico esempio di genio e sregolatezza, una sregolatezza dovuta alla malattia, a quella insofferenza dell’anima che intacca la mente e rende facilmente valicabile quel sottile confine che separa dal mondo del lavoro, degli affetti, della volontà. Giovanni Corti (poi francesizzato in Corty "perché non voleva essere confuso con un omonimo mercante di vini") nasce da famiglia povera, ottavo di dodici figli, con una predisposizione naturale per disegno e pittura che dimostra lavorando come gessatore-decoratore "tipico mestiere malcantonese". Dopo la morte dei genitori un amico mecenate gli paga gli studi alla Académie de Saint Luc di Bruxelles dove Corty lavora dal 1930 al 1933 con profitto eccellente. E’ qui che si forma la matrice della sua pittura, quell’espressionismo forte, restio a regole e canoni, ma rispondente alla sua ribellione, ad un’urgenza intima di confessione, di trasmettere stati d’animo. E l’animo di Corty fatica a mantenere un giusto equilibrio soprattutto dopo che l’amico mecenate non è più in grado di mantenerlo agli studi ed è costretto a rientrare in Svizzera. Vivrà in Ticino tra Lugano, Agno e Mendrisio, tormentato da problemi finanziari e di salute, ma dipingendo sempre molto, anche durante i soggiorni in manicomio, nel tentativo di esorcizzare il dolore. Soggetto delle suo opere sono la gente del popolo, minatori, contadini, emigranti, figure dalle spalle ricurve per il peso del lavoro, corpi che si stringono gli uni agli altri cercando conforto, braccia penzolanti, la stessa postura che caratterizzava l’incedere di Corty. Paesaggi e case sono deformati, i primi troppo dilatati, le seconde troppo piccole per contenere un uomo, realizzati con colori dai timbri monotoni e stesi pesantemente sulla tela, interpreti del disagio di non appartenere ad un luogo, di sgretolamento del nucleo familiare. Nei soggetti di carattere religioso l’attenzione di Corty si concentra sull’anatomia dei corpi, deformati, allungati, dai volti di uomini e donne esasperatamente dilatati dal dolore di cui Corty è nel contempo protagonista e desolato spettatore.

"Il genio e la sregolatezza di un inquieto bohémien" di Rosabianca Mascetti pubblicato il 26 settembre 1998 da
"Il Corriere" Como


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