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Musica e Mitologia
di Luigi Viazzo

La musica e le note musicali sono ben presenti in alcuni fra gli episodi più conosciuti della mitologia celeste dei greci e di altri popoli dell'antichità.

Va citata anzitutto la leggenda legata ala costellazione zodiacale del Capricorno.

I Greci chiamavano la creatura immortalata fra queste stelle Egocero, la "capra cornuta" e la identificavano col Dio Pan, protettore della campagna dalle corna e zampe di capra. Una divinità dai natali oscuri, che trascorreva la maggior parte del suo tempo sonnecchiando, dando la caccia alle donne e spaventando la gente col suo grido molto forte, da cui trasse origine la parola "panico". Uno dei suoi figli, nato dall'unione con Eufeme la nutrice delle Muse, fu Croto, creatura identificata con la costellazione del Sagittario, nella sua forma di satiro (creatura umana con orecchie, coda e zoccoli da cavallo al posto dei piedi), anziché di centauro. Tra le vittime degli assalti di Pan al "gentil sesso", vi fu la ninfa Siringa che, per sfuggire alle sue attenzioni, si trasformò in un fascio di canne. Mentre Pan le abbracciava, iniziò a spirare un forte vento che fece produrre alle canne stesse un suono così melodioso che il dio ne fece, unendole con la cera, una siringa o flauto; nacque così il celebre "flauto di Pan". Fra le imprese di questo "Don Giovanni ante litteram" vi furono, però, anche due episodi meritori. Nel primo, prestò aiuto agli dei dell'Olimpo quando furono assaliti dai Titani, le sei creature gigantesche figlie del Dio Urano e Gea, la madre Terra, quando tentarono di conquistare la montagna sacra. Pan, in quell'occasione, mise in fuga le gigantesche creature, soffiando dentro ad una conchiglia che emise un suono terrificante che li spaventò. Questo sembra essere il motivo per il quale venne raffigurato come creatura parzialmente marina, anche se altre fonti ricollegano questa trasformazione, poiché Pan lanciò contro i Titani dei crostacei. Nella seconda impresa di Pan, questi avvisò gli dei dell'arrivo del mostro Tefeo, mandato contro di loro sempre da Gea. Gli dei allora si trasformarono, su suggerimento dello stesso Pan, in animali, ingannando così il mostro. Pan, per parte sua, trasformò la parte posteriore del suo corpo in pesce e poté così tuffarsi nel fiume Nilo e fuggire. L'unica divinità che non fuggì di fronte al mostro e lo affrontò, fu Giove e Tefeo, durante la terribile lotta che ne seguì, lo ferì, strappandogli i nervi delle mani e delle gambe. Mercurio e Pan, allora, corsero in suo aiuto, riportandogli i tendini strappati, consentendo, così, al "padre degli dei" di riprendere la lotta. Zeus, poi, riuscì ad aver ragione della terribile creatura, che atterrò con una delle sue terribili folgori e poi seppellì sotto l'Etna in Sicilia, i cui "sbuffi" segnalavano la residua attività di Tefeo. Per ringraziare Pan dell'aiuto prestato, Giove lo pose in cielo sotto la forma assunta per tuffarsi nel fiume più lungo del pianeta.

La seconda costellazione con assonanze musicali è il Corvo. Il mito più conosciuto riguardante questo asterismo ha infatti come protagonista Apollo, il dio della luce, della profezia e della musica; Questi decise di donare l'acqua purissima di una sorgente a Giove, il padre degli dei, ed a tal scopo mandò alla fonte un corvo con una coppa, identificata nella vicina costellazione del Cratere. Durante il tragitto, però, il volatile vide un albero ricco di succulenti fichi, che, tuttavia, non erano ancora maturi. Allora il Corvo attese per giorni che maturassero, e ciò costrinse Apollo a procurarsi da solo l'acqua della sorgente. Quando finalmente i fichi maturarono, il corvo li divorò tutti, ma, contemporaneamente, si rese conto di dover giustificare in qualche modo il suo ritardo al suo divino mandante. Così decise di catturare e serrare fra le zampe un serpente, rappresentato in cielo dalla vicina costellazione dell'Idra. Poi si recò da Apollo, e, mostrandogli il serpentello, affermò che quella creatura aveva difeso la sorgente, impedendogli di prendere l'acqua della fonte.

Il dio della luce che possedeva, tra l'altro, la facoltà di conoscere sempre la verità, non ebbe difficoltà a smascherare la bugia, senza contare che, mentre il volatile attendeva la maturazione dei fichi, si era recato personalmente alla fonte e non aveva trovato in quel luogo nessuna traccia del volatile e del serpente. Così il dio decise di punire il Corvo per non avergli obbedito, e lo condannò a rimanere per sempre in cielo perennemente assetato, mentre vicino a lui si trova il calice, che gli era stato affidato, leggermente inclinato come se stesse per versare l'acqua che mai potrà raggiungere. Apollo, poi, decise di porre in cielo anche il serpente d'acqua (oltre al Corvo ed alla Coppa), per ricordare agli uomini quanto fosse pericoloso mentire. Alcuni cantori greci fecero risalire il verso stridulo del corvo alla grande sete che aveva rinsecchito, nei secoli, la gola dell'uccello. Secondo un'altra leggenda greca, il Corvo era anche la creatura in cui si era tramutato il citato Apollo, per sfuggire al mostro Tefeo (o Tifone), il quale era così forte da provocare terremoti ed eruzioni vulcaniche. Questa terribile creatura era figlio di Gea (dea della Terra) e di Urano e, con i suoi fratelli (i Giganti) diede l'assalto all'Olimpo, ma fu sconfitto da Giove e dagli altri dei.

Un altro mito, riferito dal poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi, narra che il Corvo un tempo aveva penne e piume candide come una colomba, fino al giorno in cui si dovette sobbarcare un compito ingrato: riferire al dio della musica che l'amata Coronide lo aveva tradito. Apollo, allora, si infuriò a tal punto che la sua vendetta si riversò sul povero Corvo, che fu tramutato da bianco in nero pece.

Molte sono le leggende che riguardano la costellazione del Cigno, questo superbo animale dal lungo e sinuoso collo. La prima e più conosciuta individuava in questo gruppo di astri il Dio Giove che così si trasformò per amare Leda, figlia di Euritemide e Testio, re di Laconia, e moglie di Tindareo re di Sparta. Da quella storia d'amore nacquero quattro figli: Elena di Troia, Clitennestra, Castore e Polluce (questi ultimi due erano i mitici Dioscuri). Un secondo mito narra che un giorno il sommo padre degli dei si invaghì della bella Nemesi, dea della giustizia e della vendetta. La dea, per sfuggire alle attenzioni di Giove, che evidentemente non gradiva, si trasformò in vari animali, acquatici, terrestri e d'aria. Il re dell'Olimpo, però, la seguì in tutte queste trasformazioni, assumendo di volta in volta le sembianze di un animale più veloce di quello della sua preda. Quando la bella dea si trasformò in un oca selvatica Zeus divenne un cigno, così la raggiunse e si accoppiò con lei. Un'altra versione del mito narra che Giove, per sedurre Nemesi, finse di essere un cigno inseguito da un'aquila. La dea gli diede ospitalità e quando si addormentò col volatile in grembo, questi ne approfittò. Entrambi i miti narrano che da quelle "avances forzate" di Giove nacque un uovo (da cui emerse Elena di Troia), che Nemesi regalò a Leda, per dare inizio ad una delle tantissime variazioni sul tema legate alla nascita dei Dioscuri. Secondo un'altra variante del mito, l'uovo fu trovato da un pastore dentro ad un bosco che poi lo donò alla regina di Sparta. Entrambe le trasformazioni del padre degli dei furono immortalate in cielo nella costellazione del Cigno. Detto del mito più conosciuto, questa costellazione va ricordato che questo gruppo di stelle fu anche identificato con il più conosciuto musicista dell'antichità: Orfeo, figlio di Apollo e Clio o, secondo un'altra leggenda, di Eagro e Calliope. Il principale mito legato ad Orfeo si ricollega al celebre per l'episodio della sua discesa agli inferi per salvare la bella Euridice. Dopo la sua morte che avvenne, secondo taluni autori per una folgore lanciata da Zeus, o secondo altri fu provocata dalle Menadi, le terribili sacerdotesse di Bacco che lo sbranarono, fu posto in cielo vicino al suo strumento: la Lira, raffigurata nell'adiacente costellazione.

Ricollegandosi la Cigno, va ricordato che per gli antichi Greci gli astri della costellazione della Lira rappresentavano lo strumento musicale inventato dal giovane Mercurio (o Hermes) figlio di Giove e della Pleiade Maia. Il messaggero degli dei, il giorno stesso della sua nascita, catturò una tartaruga, che stava brucando fuori dalla grotta in cui era venuto alla luce, sul monte Illene in Arcadia. Poi ripulì lo scudo dorsale dell'animale e lo forò, inserendo nei buchi i nervi di un gruppo di buoi sottratti al fratellastro Apollo (come già detto figlio di Giove e di Leto). Fu questa, tra l'altro, la prima impresa "cleptomane" di Mercurio, noto per la propria velocità nei movimenti che utilizzava anche per i suoi furti e, non a caso, era considerato anche protettore dei ladri e dei borseggiatori. I nervi dei buoi rubati ad Apollo, divennero poi le corde del suo strumento, che erano sette, tante quante le Pleiadi (le sette sorelle), che volle onorare. Poi, il messaggero degli dei strinse le corde della Lira attorno alle corna di un ariete. Secondo la leggenda Hermes avrebbe inventato anche il plettro per suonare il suo strumento. Compiuta l'opera, Mercurio dovette però affrontare le conseguenze del ratto dei buoi sacri ad Apollo. Il dio, infatti, si recò dal fratellastro perché gli rendesse conto del suo bestiame e, questi, allora, decise di donargli questo meraviglioso strumento che lo stesso Apollo passò poi al figlio Orfeo nato dal suo amore per Clio, una delle nove Muse (o secondo un altro mito da Eagro e Calliope, un'altra musa). Orfeo, come già detto, fu il più grande musico dell'antichità, capace addirittura coi suoi suoni melodiosi di incantare le pietre ed arrestare i corsi d'acqua. Il figlio di Apollo, tra l'altro, partecipò anche alla spedizione degli Argonauti che allietò con la sua lira gli durante il loro trasferimento alla volta della Colchide dove si celava il Vello d'Oro. Durante il viaggio, la sua musica riuscì addirittura a respingere l'attacco delle Sirene, le ninfe marine, capaci col loro canto di incantare i marinai che facevano poi naufragare sulla loro isola per divorarli (A tal proposito si ricordi l'episodio di Ulisse nell'Odissea). Orfeo, poi, sposò la bella ninfa Euridice, la quale un giorno dovette affrontare le "avances" di Aristeo, a sua volta figlio di Apollo e quindi fratellastro di Orfeo. Euridice mentre fuggiva dal suo insistente spasimante fu morsa da una vipera e morì. Il musico, allora, decise di scendere nell'oltretomba per riportare in vita l'amata. Un'impresa impossibile, a meno di non possedere qualità particolari, ed Orfeo fece aprire le porte dell'Ade grazie alla sua musica che incantò sia il guardiano Cerbero (il cane dalle nove teste) che il Dio Plutone, signore degli Inferi. Questi, affascinato dal suono della sua lira, consentì ad Orfeo di portare con sé Euridice, ma Giove pose una condizione a quel salvataggio: fece infatti promettere ad Orfeo che per nessun motivo si sarebbe voltato per cercare la sposa che lo seguiva, fin quando non fossero ritornati in superficie. Per metterlo alla prova, le divinità degli inferi gli fecero ascoltare delle urla terribili che sembravano provenire dalla moglie. Alla fine, oramai giunti alla meta, i nervi di Orfeo cedettero e si voltò: la bella Euridice, allora, si trasformò in una statua di sale e lentamente la sua ombra ritornò negli Inferi, oramai irraggiungibile. Orfeo, allora, iniziò a vagare inconsolabile per la campagna, suonando tristi melodie con la sua lira e rifiutando tutte le proposte di matrimonio che gli venivano offerte da varie donne, attratte dalla sua bellezza ed ammaliate dalla sua musica. Tanti furono i rifiuti che le sue spasimanti si coalizzarono per dargli una bella lezione. Un giorno, quindi, lo affrontarono in gruppo, ed iniziarono a scagliare contro di lui sassi e frecce. Il musico li respinse col suono della sua lira che li fece cadere al suolo. Le donne, però, non si persero d'animo e continuarono nel loro tiro al bersaglio, accompagnando il lancio da fortissime urla. Ad un certo punto, il loro strepitio fu più forte delle note della lira e raggiunsero il bersaglio, uccidendo il figlio di Apollo. Secondo un'altra versione del mito, il musico fu ucciso dalle Menadi, le sacerdotesse seguaci del Dio Bacco (o Dioniso) che aveva un conto in sospeso con lui, poiché sosteneva che il musico non lo onorasse a sufficienza. Orfeo, infatti, preferiva dedicarsi al culto del padre Apollo (visto in questo caso nella sua impersonificazione con il Dio Sole) ed attendeva ogni mattina, sul monte Pangeo, che il padre sorgesse, mentre allietava l'alba con le sue dolci melodie. Bacco, allora, lo fece sbranare dalle Menadi le sue terribili e sanguinarie sacerdotesse. Una volta andato incontro al suo fatal destino, il musico poté raggiungere la bella Euridice nell'Ade, mentre il suo strumento volò in cielo.

Per i Romani questa costellazione era la cetra di Orfeo, Mercurio, Apollo, Arione, (vedi costellazione del Delfino) o Anfione (un altro celebre musico dell'antichità), o, infine, molto più semplicemente era conosciuta come la "canzone".

Conosciuto dai Greci con il nome di "Pesce sacro", per gli antichi cantori della penisola ellenica il Delfino rappresentava il salvatore del celebre musico Arione, un suonatore di lira la cui sua fama si sparse in tutto il mondo antico. Il noto musicista, un giorno, si imbarcò su una nave per far ritorno alla natia isola di Lesbo, dopo una fortunata tournée in Sicilia che gli aveva fruttato una grande fortuna. Durante il viaggio, però, i marinai della nave, accortisi delle ingenti ricchezze trasportate dal loro passeggero, tentarono di sottrargli il ricavato dei suoi concerti. Circondato dai malviventi, intenzionati anche ad ucciderlo pur di impadronirsi del bottino, Arione, oramai pronto ad affrontare il peggio, chiese di poter per l'ultima volta intonare una canzone con la sua amata lira. I pirati, che evidentemente ben conoscevano la sua bravura, acconsentirono. Le note della lira, frattanto, avevano attirato un branco di delfini. Persa oramai ogni speranza, Arione si gettò in acqua. Uno dei delfini, che si era avvicinato alla nave, lo fece però salire a cavalcioni sul suo dorso e lo portò sano e salvo verso la terraferma. Più tardi Arione riconobbe i furfanti, che furono arrestati e condannati a morte. Apollo, il dio della musica e della poesia, volle porre in cielo il delfino che aveva aiutato il musico che tanto ammirava, e decise, tra l'altro, di posarlo proprio vicino alla lira, che raffigurava lo strumento di Arione (vedi anche costellazione della Lira). Da allora il delfino divenne amico e protettore degli uomini in mare. Un altro mito proveniente dalla Grecia narra che questo cetaceo fu il messaggero d'amore di Nettuno, il dio del mare. Dopo aver, insieme ai fratelli Giove e Plutone, detronizzato il loro sanguinario padre Saturno (che divorava i propri figli per paura che lo sostituissero nel dominio sul mondo), i tre fratelli procedettero alla spartizione del Creato. Una divisione che, secondo un mito, si compì semplicemente giocando a dadi. Giove (o Zeus), allora, divenne re del cielo, Plutone (o Ade) Re degli Inferi e Nettuno (Poseidone o Posidone) signore degli Abissi. Nel grande e bellissimo palazzo che aveva edificato in fondo al mare, nonostante gli agi e le ricchezze, Nettuno si sentiva però molto solo. Così decise di cercarsi una compagna, per portarla a vivere nella magione che aveva costruito sul fondo marino al largo delle coste dell'isola Eubea. Invaghitosi di Anfitrite, una delle bellissime ninfa marine Nereidi, decise di corteggiarla per farne la propria regina e sposa. Il suo primo approccio, però, non ebbe grande successo per i rozzi modi con i quali il re del mare aveva avvicinato la bella ninfa. Nettuno, però, non si perse d'animo ed affidò il suo grido d'amore a vari messaggeri, i quali tentarono di conquistare il cuore della sua amata. Il più bravo di questi "ambasciatori d'amore" fu un delfino il quale, con il suo fare accattivante, convinse la bella Anfitrite a seguirlo, nel castello sottomarino di Poseidone, dove divenne la sua sposa.

Per ricompensarlo dell'opera prestata, poi, il Dio del mare pose il Delfino in cielo. Un altro racconto identifica l'asterismo come il cetaceo che accompagnò Bacco, dio della vite e dell'uva, durante un suo viaggio verso l'isola di Nasso, dove sposò la bella Arianna. Va ricordato, tra l'altro, che la scelta di Nasso da parte di Bacco, per il suo matrimonio, non poteva essere più azzeccata, visto che quell'isola era celebre per i suoi vini pregiati.

I Romani conoscevano questo minuscolo gruppo di stelle come: "colui che convinse Anfitrite", o anche "ricurvo", riferendosi alla forma arcuata del suo dorso quando emerge dall'acqua del mare.

Un'altra costellazione "musicale" è il Sagittario viene spesso identificata con la figura di un centauro che tende il proprio arco verso i gruppi di stelle circostanti. Questa sua raffigurazione lo fece confondere con Chirone (la creatura per metà uomo e metà cavallo che insegnò l'uso delle armi al Pelide Achille) e la costellazione del Centauro, un gruppo di stelle che si trova più a sud dell'arciere. Un altro mito lo identificava invece con Croto figlio del Dio Pan (vedi anche costellazione del Capricorno) ed Eufeme la nutrice delle Muse (figlie di Giove e Mnemosine). Croto era un satiro (creatura umana con orecchie, coda e zoccoli di capra) ed era un celebre cacciatore che compiva le sue battute venatorie a cavallo. Da qui quindi la leggenda che lo identifica in un centauro, una mitica creatura nata nell'immaginazione umana, e che si ricollega alle mitiche figure di uomini così bravi nell'arte di cavalcare da sembrare quasi in simbiosi col proprio quadrupede. Fu anche l'inventore dell'arte del tiro con l'arco e le frecce, e viene quindi raffigurato in cielo, mentre tende le corde della sua invenzione pronta a scoccare i dardi in grado di colpire le sue sfortunate prede. Il satiro risiedeva sul monte Elicone con la madre Eufeme, insieme alle altre Muse con le quali viveva in allegria fra feste e banchetti. Le Muse, tra l'altro, apprezzavano molto la sua compagnia e cantavano per lui. Siccome era un grande estimatore della musica Croto le applaudiva con grande trasporto, tessendo anche le lodi delle loro capacità canore. E le figlie di Giove e Mnemosine, quando Croto morì, chiesero al padre Giove di porlo in cielo in segno di riconoscenza per i bei periodi trascorsi insieme. E, fra le stelle, viene celebrata la sua grande capacità di tiratore scelto, col suo arco pronto a lanciare uno dei suoi dardi.

Alla moderna costellazione del Pavone può essere riferito un mito musicale dell'antica Grecia che ebbe come protagonista Argo, un personaggio da non confondere, però, con il progettista che costruì la nave di Giasone (vedi la costellazione della Nave di Argo). Narra il mito che Giove si fosse invaghito della bella fanciulla Io, figlia del Dio fluviale Inaco e della ninfa Melia. Per incontrarla segretamente, il padre degli dei l'aveva trasformata in una candida e bianca giovenca. La moglie Giunone, colpita dalla bellezza di quell'animale, chiese la giovenca in regalo, ed il re degli dei acconsentì per non insospettire la moglie. Giunone, poi, affidò Io, diventata frattanto una mucca adulta, alle cure del citato Argo, un guardiano con cento occhi e dalla gigantesca corporatura. Secondo una variante della leggenda, Zeus aveva assunto forma di nube per amare Io che Giunone, in uno dei suoi tipici attacchi di collera, trasformò in una mucca che affidò alla custodia di Argo. Per salvare l'amata, che nel frattempo aveva dato al mondo Epafo (da cui discesero Danao ed Egitto), Giove chiese aiuto al figlio Mercurio. Questi che ammaliò il guardiano con le note della sua lira, narrandogli anche delle suggestive leggende. Appena anche l'ultimo dei cento occhi del guardiano fu scivolato nel sonno, il messaggero degli dei lo decapitò. Giunone, allora, in segno di riconoscenza per l'opera prestata dal guardiano, mise i suoi occhi nella coda del pavone. Secondo la leggenda poi la regina degli dei mandò contro la povera Io un implacabile tafano che la costrinse a fuggire fino in Egitto, dove Zeus la liberò dal suo persecutore, e poté finalmente riprendere le sue sembianze umane.

Nell'arte antica Io viene raffigurata non solo come una mucca, ma talvolta anche come una fanciulla con delle corna sul capo. Io era anche il nome di una delle nutrici che allevò il piccolo Giove sull'isola di Creta, un episodio che da vita ad un'interessante connessione mitologica.

La costellazione conosciuta dagli antichi Greci (ma anche dagli Arabi) come Triangolo, era chiamata dagli antichi Ebrei con il nome di Shalish, dal nome di uno strumento dalla forma triangolare e formato da tre corde, menzionato nel primo libro di Samuele.

Musica e Astronomia
di Luigi Viazzo

È di questi giorni la notizia che per la prima volta gli astronomi sono riusciti ad ascoltare la musica di una stella. Ne dà notizia Piero Bianucci dalle colonne di "Specchio", il magazine del quotidiano "La Stampa". Le note arrivano da Alfa Centauri (Rigil Kentaurus) un astro simile al Sole e che brilla nel cielo australe a 4,3 anni luce da noi. Parlare di musica è però improprio: nello spazio vuoto le onde sonore ovviamente non si propagano. Si parla infatti di infrasuoni, cioè suoni a bassissima frequenza: un'oscillazione ogni sette minuti, mentre il nostro orecchio non percepisce suoni sotto le 25-30 oscillazioni al secondo. In realtà, come spiega Bianucci gli astronomi hanno osservato con mezzi ottici il pulsare di tutta la stella, e quelle pulsazioni corrispondono a una frequenza di 2-3 milli-Hertz. Non è esatta neppure la parola musica: se gli esseri umani potessero ascoltare quelle frequenze, avvertirebbero non una melodia o un ritmo ma una specie di brontolio. Anche il Sole vibra come una campana a ritmo lentissimo di una vibrazione ogni cinque minuti. Su alfa Centauri, la stella più vicina a noi, durano invece 7 minuti, in accordo con il fatto che Alfa è un po' più grande del Sole: 875.000 km di raggio anziché 700.000. L'oscillazione avviene a 35 centimetri al secondo e l'intera stella si espande e contrae di 40 metri.

Un altro modo di "ascoltare" è legato alla radioastronomia. Gli oggetti del nostro universo non emettono infatti solo radiazione visibile, la luminosità che ci raggiunge, ma emettono anche su altre bande invisilbili all'occhio umano: infrarosso, ultravioletto, raggi x e nella banda radio.

Le radiazioni che provengono dal cosmo mostrano infatti ampiezze che variano in modo irregolare e in un ricevitore diventano rumori e fruscii. Per la radio astronomia è necessario un radio telescopio. Il più semplice è costituito da un paraboloide con un'antenna nel fuoco. La superficie riflettente può essere tutta di metallo compatta o fatta a rete, a seconda della lunghezza d'onda su cui si vuole operare.

Le radioonde raccolte dal paraboloide si riflettono e concentrano nel fuoco su un'antenna, dove inducono una corrente che viene trasmessa al ricevitore ed amplificata. Naturalmente quanto più ampia sarà la superficie del paraboloide,tanto maggiore sarà l'energia raccolta e di conseguenza il potere risolutivo del radiotelescopio, ovvero la capacità di separare i dettagli di un'immagine.

E' difficile comunque superare certi diametri per motivi strutturali e costi di realizzazione. La soluzione escogitata dai radioastronomi è stata di costruire e collegare fra loro due strumenti, in modo da aumentare la superficie riflettente. Dai due radiotelescopi, si è arrivati a strutture con più strumenti puntati verso lo stesso oggetto e che possono sfruttare una superficie ricevente di vari chilometri e collegati ad un calcolatore centrale.

Un'altra soluzione consiste nel puntare vari radiotelescopio nelle diverse parti del globo puntati verso lo stesso oggetto anche se il problema che sorge è legato alla sincronizzazione delle apparecchiature.

Tra gli oggetti più interessanti dello "zoo celeste" figurano le radio galassie. Verso la fine degli anni quaranta del XX secolo, i radiotelescopi, rivelarono emissioni radio da parte di alcune galassie subito battezzate radiogalassie. In quasi tutti i casi, la sovrapposizione della mappa di intensità radio sull'immagine fotografica della galassia, mostrava che la regione di emissione radio risultava parecchio più estesa rispetto all'emissione ottica. In particolare era possibile distinguere una regione di emissione radio localizzata piuttosto debole, sostanzialmente coincidente con il nucleo della galassia, e due regioni più estese, simmetriche rispetto alla prima, e decisamente più brillanti nella parte terminale. Queste regioni vengono definite rispettivamente come, il nucleo ed i lobi della radiogalassia. L'ipotesi oggi più accreditata, sostiene che proprio i nuclei di questi oggetti, siano in grado di emettere due fasci molto collimati di elettroni relativistici che, muovendosi in campi magnetici molto intensi, irradino radiazioni elettromagnetiche attraverso un processo di sincrotone, producendo le strutture osservate nella banda radio. Secondo questo scenario sarebbe possibile, spiegare naturalmente perché il nucleo delle radiogalassie, alimentando i due getti laterali, perda energia e risulti più debole delle regioni circostanti. Allo stesso modo, i massimi di intensità osservati agli estremi dei due lobi, sarebbero dovuti all'interazione dei due getti con il mezzo interstellare.

Una delle radiogalassie più studiate è Centaurus A (sigla Cen A), così denominata poiché si tratta della sorgente radio più luminosa della costellazione del Centauro. In assoluto essa è anche tra le più intense di tutto il cielo. La sua galassia ospite è la NGC 5128 (sigla del New General Catalogue), posta alla distanza di circa 15 milioni di anni luce e settimo oggetto extragalattico in ordine di luminosità. NGC 5128, è caratterizzata da una forma decisamente peculiare, a metà tra quella di una normale galassia a spirale ed una ellittica. Non sempre l'emissione radio della radiogalassia segue fedelmente il profilo di luminosità ottico della galassia ospite. Nel caso di Cen A, ad esempio, l'emissione radio si estende simmetricamente in direzione perpendicolare all'asse di simmetria della galassia con la formazione dei due lobi caratteristici.


 

LA STORIA DEI TRANSITI
di: Luigi Viazzo


1631. Nelle sue Tavole Rudolfine (1627) l’astronomo tedesco Johannes Kepler segnalò due importanti fenomeni che si sarebbero svolti nel 1631: il 7 novembre il pianeta Mercurio sarebbe passato di fronte al Sole e un mese dopo, il 6 dicembre, Venere avrebbe fatto lo stesso. Keplero tuttavia non poté osservarli poiché morì nel 1630. Lo scienziato francese Pierre Gassendi, uno dei tre fortunati che vide il transito di Mercurio del 1631, cercò invano di osservare anche quello di Venere. Fallì perché il fenomeno si ebbe fra il 6 e il 7 dicembre, quando in Francia era notte.

1639. Il passaggio successivo si verificò il 4 dicembre e fu osservato da Jeremiah Horrocks che viveva a Hoole, presso Liverpool, dove svolgeva la professione di insegnante e di chierico, anche se la sua vera passione era l’astronomia che imparò da autodidatta.
Per non correre il rischio di perdere il fenomeno, iniziò a scrutare il Sole il giorno precedente, il 3 dicembre, sullo schermo allestito all’interno di una camera oscurata, sul quale il suo telescopio proiettava l’immagine del Sole. All’alba del 4, una domenica, riprese le sue osservazioni fino alle nove e poi dalle dieci fino a dopo mezzogiorno. All’una del pomeriggio dovette tuttavia fermarsi - doveva prestare i suoi servizi in chiesa - per poi riprendere verso le tre e un quarto. In quel momento Venere stava per giungere al secondo contatto. L’osservazione finì, con il tramonto del Sole, alle quattro meno dieci. Seppur disturbato dalle nuvole, il fenomeno fu osservato anche da William Crabtree da Manchester. Non si ha notizia di altre osservazioni di quel transito.

1761. Il successivo passaggio si ebbe nel 1761 e Sir Edmund Halley - consegnato alla storia dalla cometa che porta il suo nome - chiese di effettuare le osservazioni del fenomeno in diverse zone del globo e per questo chiamò a raccolta gli scienziati di vari paesi.
Halley aveva precedentemente osservato dall'isola di Sant'Elena il transito di Mercurio del 7 novembre del 1677. In quell’occasione aveva avuto l'idea di utilizzare il fenomeno per misurare la distanza media fra la Terra e il Sole, assunta come unità di misura per le distanze in astronomia (Unità Astronomica = U.A.). Il concetto non era completamente nuovo: l'astronomo scozzese James Gregory (1638-1675) l'aveva già proposto nel 1663. Ma mentre Gregory si era limitato ad enunciarlo in termini generali, Halley elaborò una teoria sulla quale lavorò per i successivi 40 anni. Nel 1716, quando aveva 60 anni, presentò alla Royal Society la sua proposta, che però si basava sul transito di Venere, per misurare la parallasse del pianeta. Una volta conosciuta questa misura, grazie alla terza legge di Keplero, si sarebbero potute calcolare le distanze di tutti gli altri corpi celesti del Sistema Solare. Ma perché non usare Mercurio, il cui transito è più frequente di quello di Venere? Il motivo, come spiegò Halley stesso, risiedeva nel fatto che Mercurio era troppo vicino al Sole per poter effettuare una misura precisa della sua parallasse.
Halley non poté assistere al transito del 1761 poiché morì nel 1742. Gli inglesi organizzarono due spedizioni per osservare il fenomeno: una proprio all’isola di Sant’Elena e un’altra in Sud Africa al Capo di Buona Speranza - in origine era stata prevista l’isola di Sumatra, meta abbandonata per motivi di sicurezza legati alla guerra dei sette anni in corso fra Francia e Inghilterra.
I francesi organizzarono quattro missioni: nei mari del sud, a Vienna e in Siberia. Da ricordare la disavventura dell’astronomo Guillaume Le Gentil, che aveva scelto come proprio sito osservativo la città indiana di Pondicherry, nel Golfo del Bengala, la quale però cadde in mano inglese. Così si diresse verso l’isola di Mauritius, ma non vi arrivò in tempo e quindi osservò il fenomeno dalla nave, senza poter compiere tutte le misurazioni scientifiche che aveva pianificato.
Da segnalare, in occasione di quel transito, la scoperta dell’accademico russo Mikhail Vasilievitch Lomonosov (fondatore dell’Università di Mosca) che da San Pietroburgo osservò un alone di luce intorno a Venere sia al momento dell’ingresso sia dell’egresso. Interpretò giustamente il fenomeno come la presenza di un’atmosfera intorno al pianeta.
In totale il fenomeno fu osservato da circa 70 luoghi sparsi sull’intero globo. L’analisi di quelle osservazioni consentì di calcolare, con un’accuratezza in precedenza mai raggiunta, la distanza del Sole dalla Terra. Halley sperava che la distanza stessa potesse essere calcolata con una percentuale di incertezza massima del 2 per ‰. Questo margine risultò più alto e l’U.A. fu stimata fra i 154 822 172 e i 125 332 237 chilometri. I risultati non furono quelli sperati anche perchè alcune osservazioni furono ostacolate da situazioni meteorologiche sfavorevoli.

1769. Le migliori condizioni per osservare il transito si sarebbero registrate nel Pacifico meridionale, un’area ancora in parte sconosciuta. Furono organizzate missioni francesi (ai Caraibi e in Messico), spagnole, russe, danesi, svedesi e naturalmente inglesi. Per queste ultime fu stanziata la cifra di 4000 sterline dell’epoca. Il responsabile per la missione inglese nei mari del sud fu il capitano James Cook che partì a bordo della nave Endeavour con un nutrito seguito di astronomi e scienziati. Presso l’isola di Tahiti fu costruito un forte-osservatorio che Cook battezzò “Point Venus”. Il fenomeno fu osservato senza disturbi atmosferici, al contrario di quanto accadde al già citato francese Le Gentil che dopo aver studiato, negli otto anni che separavano un transito dall’altro, la fauna e la flora della zona dell’Oceano Indiano, decise di effettuare l’osservazione del fenomeno da Manila nelle Filippine. L’Accademia di Francia gli ordinò invece di recarsi a Pondicherry (già sito osservativo prescelto per il transito del 1761). Nonostante la notte precedente il cielo fosse stato terso, la mattina le nubi gli impedirono l’osservazione (a Manila, per la cronaca, il tempo fu splendido…). Ma le sue disavventure non erano terminate: quando tornò a Parigi (dopo un’assenza di dodici anni) scoprì infatti che i suoi eredi – che lo avevano creduto morto – si erano già divisi il suo patrimonio.
Osservazioni scientificamente valide furono invece effettuate in varie località dei futuri Stati Uniti (allora ancora sotto il dominio inglese) e rappresentarono il primo vero grande sforzo della comunità scientifica nel Nuovo Mondo.
In tutto le osservazioni ufficiali furono 151, molte effettuate da dilettanti e sette da parte di stazioni scientifiche sparse su metà del globo. La misura della distanza fra Sole e Terra fu così ancor più accurata e compresa fra i 154 822 172 e i 148 199 936 chilometri.

1874. Tra il transito del 1764 e quello del 1874 furono scoperti un nuovo pianeta, Urano, e il primo asteroide, Cerere, ma soprattutto fu inventata la fotografia. L’interesse suscitato dai media dell’epoca amplificò l’attesa per il fenomeno sia in Europa sia oltreoceano. Il congresso statunitense stanziò la ragguardevole cifra di 175 000 $ per finanziare le missioni osservative, una in Cina (nei pressi di Pechino) e una a Nagasaki in Giappone, preferita a Yokohama (nella prima città il cielo fu foschioso mentre nella seconda completamente terso). Le condizioni meteorologiche incerte rovinarono i piani anche alla spedizione inglese inviata sulla più grande delle isole Kerguelen, nell’Oceano Indiano meridionale, dove i due gruppi osservativi, posizionati nella parte orientale dell’isola persero uno l’ingresso e l’altro l’egresso di Venere sul disco solare. Un gruppo tedesco, posto sulla parte settentrionale della stessa isola, ebbe invece maggior fortuna e osservò entrambe le fasi del fenomeno. La misura della distanza fra Terra e Sole fu in quell’occasione stimata fra i 149 037 700 e i 149 730 000 chilometri, con un’incertezza quindici volte superiore a quanto gli astronomi si aspettassero. Ma nel frattempo l’astronomo scozzese Sir David Gill propose di utilizzare, per ricavare questa misura, la parallasse di Marte e calcolò così dal suo osservatorio, sull’isola di Ascensione nell’Oceano Atlantico, la misura di 149 456 300 chilometri (molto vicina al valore di 149 597 870 km delle misure odierne).

1882. L’interesse per il successivo transito del 1882 scemò dunque notevolmente. Il Congresso statunitense stanziò infatti soltanto 85.000 $ per le missioni scientifiche, coordinate dall’astronomo di origine canadese Simon Newcomb, il quale scelse il Sud Africa, precisamente Wellington, cittadina nei pressi del Capo di Buona Speranza, per osservare il fenomeno (che si svolse in condizioni climatiche perfette). Ma, come molti astronomi oramai ammettevano apertamente, troppe variabili - climatiche e atmosferiche - rendevano difficoltoso effettuare misure esatte, con la conseguenza di vanificare il tentativo di ricavare dati precisi dal fenomeno.

Testo tratto dal supplemento all’agenda il cielo 2004,
Drioli Editore Como-Civiglio.
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