Archivio Attivo Arte Contemporanea
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Galleria d'Arte Il Salotto via Carloni 5/c - Como - archivio storico documentativo
Gianni Secomandi
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Marisa Vescovo, per la mostra Artisti Italiani in Egitto Cairo aprile 1979

Ci piace rendere esplicito che questa mostra non è nata dal disegno più o meno lambiccato di un critico, ma da un semplice processo di aggregazione cresciuto attorno ad un primo nucleo, e per naturale filiazione si è giunti alla consistenza di un “gruppo” con una sua propria fisionomia, magari abbastanza aggressiva, che ci pone dei problemi di chiarezza nell’ambito dell’analisi delle singole esperienze da incasellare. Ma siccome è indubbiamente molto fascinoso introdursi nelle “stanze dei giochi” a verificare meccanismi oscuri o poco noti decidiamo di procedere. Ci pare giusto che un gruppo di operatori italiani venga presentato degnamente in un paese che poco forse ha avuto modo di conoscere dell’arte di casa nostra. Un gruppo di artisti che con tempi e modi diversi portano avanti ricerche che in molti casi hanno segnato le tappe più calde della storia artistica dal dopoguerra ad oggi. Le occasioni di confronto con quanto si fa all’estero sono rare ma sempre molto utili e produttive se avvengono nell’ambito di un dialettico scambio di relazioni culturali e sociali. Lo spazio artistico tra il 1950 e l’oggi è diventato un luogo di precise specificazioni e grandi spostamenti per la ricerca artistica in Italia. Il percorso parte ramificato per terminare in parallelo, infatti si procede per affinità di lavoro più che per tendenze ora quasi totalmente cancellate. Gli artisti hanno tuttavia operato alcune scelte ben chiare ed elaborato nuove tecniche per attuarle, pochi accampano ormai pretese di novità assoluta, ma ancora molti si lasciano abbindolare dai trasformismi delle pseudo-avanguardie, il loro rapporto con la realtà è comunque il più possibile libero e fresco. Lasciata da parte l’angoscia esistenziale tipica dell’Informale, se pure ben cosciente della frantumazione sociale e delle nevrosi di una pratica sempre più separata, l’artista contemporaneo sa che da queste prospettive chiuse non può che ricavare acuti stimoli per convivere a muso duro con frigidi entusiasmi morali, gracili teorie, e modelli scaduti, ma anche a trarne una “rappresentazione” per frammenti, o per segmenti, che si dà come paradigma trasparente di una situazione di crisi. Una storia abbastanza ricca ed avventurosa si scambia con una erronea veloce e poco obiettiva, si guarda al domani e si sospendono paurosamente i giudizi su dopodomani. Ma anche se si tratta di vivere in una situazione di continuo “superamento” del proprio “status”, nessuno tenta di negare quanto è stato fatto nel passato, anzi diventa l’humus ben fertile in cui affondare, con tiepida passione, mani e piedi. Vale la pena ora di stringere brevemente il conto e di considerare, secondo il loro percorso storico complessivo, una serie di ricerche, per lo più lombarde, che ci sembrano avere il fiato abbastanza lungo per proporre riflessioni su una situazione artisico-attuale che parte da lontano, ma dipana i suoi fili rossi sino ad oggi. A Milano, a Roma, e altrove, sino dagli anni 15-20, hanno avuto un loro peso preciso le opere e gli scritti di Boccioni, e di Balla (fondamentale fu il concetto di “simultaneità”), che in un’Italia un po’ bersagliera, diedero vita ad un filone di ricerca pittorica e plastica che indagò il rapporto luce-colore-spazio-segno, studiandone attentamente il percorso attico, la funzione attivante della luce, il segno, come valore strutturale di un’immagine di coscienza, indicando così nuove strade al lavoro più avvertito e avanzato. Da questa particolare matrice nacquero gli esiti linguistici del MAC (Soldati, Reggiani, Veronesi, Rho, Radice e unica donna Carla Badiali; non dimentichiamo comunque le favole materiali di Melotti e quelle grafiche di Licini) che porterà avanti con un intenso rigore, quasi moralistico, il problema dell’autonomia dell’arte italiana rispetto coeva europea, ponendo precise premesse per l’arte del secondo dopoguerra. Infatti, Fontana - figura centrale dell’arte milanese ed italiana - legato ad un Futurismo psico-boccioniano, già dal 1948 apre verso lo “spazialismo”, da cui nacque l’idea di distruggere l’ “opera” con la carica espressiva del segno, proponendo uno spazio-flusso aperto, esistenziale, aspirante ad una organicità cosmica. Non dimentichiamo che il movimento “spaziale” o “nucleare” sarà l’indirizzo di punta degli anni 50 a Milano, e vi aderirono anche Dova e Baj, il primo evidenziando già la sua matrice surreale, l’altro l’elemento grottesco e ironico ormai aggressivamente presente, magari attraverso la mediazione di Dubuffet e dei “cobra”. Anche Bertini e Scanavino - l’uno voltato verso una sorta di automatismo energetico, non immemore delle poetiche surreali, l’altro adopera con sottile sensibilità segni graffiti che sembrano trascritti da un’immagine geologica della sua Liguria - portano la loro opzione “informel” nel clima fermentante di quegli anni, a cui partecipò attivamente con le sue vene dissacratorie e generative Manzoni. Contemporaneamente trovava spazio una ricerca “realistico-esistenziale”  che vedeva tra i suoi esponenti più significativi Agenore Fabbri il quale, come ha scritto Calvesi, giunse ben presto ad una assunzione di deformazioni e lacerazioni, a cui ancora una volta non è estraneo l’Informale, di timbro espressionista e più che al surreale. Pure le ricerche più manifestamente geometriche hanno ricevuto dall’arte “autre” - che ha avuto a Milano esponenti molto significativi come: Chighine, Birolli, Scanavino, Morlotti (più naturalista) Milani, Cormani, Crippa - una corroborante importante, che ha inserito certe prospettive, nel senso che ha contestato certe formule creative troppo lontane dall’agire quotidiano (necessità quindi di abbreviare le distanze tra quadro e oggetti della realtà) e dal problema scottante dell’ “essere”. L’esistenzialismo come affermava Calvesi, non negava affatto “le possibilità di una progettazione”, ma ne ridimensionava i prodotti che non necessariamente dovevano riprodurre una situazione intrisa soltanto d’angoscia. Gli anni 60 generarono indubbiamente una tensione conoscitiva su cui franò tutto un “passato”. L’entusiasmo portò a ricercare strutture visive che coinvolgessero la totalità della nostra percezione, il Futurismo (e in subordine il Cubismo) ne fu un punto di origine, infatti come linguaggio poco determinato e vivacemente aperto sulla realtà sociale e storica mise in moto la “psicologia del futuro”, che si concretò nei temi della “città-labirinto”, dello spazio come realtà interna alla nostra coscienza, del flusso segnico portato in ogni direzione. Di questi anni sono le prime esperienze nel campo del segno-forma di Carlo Nangeroni, le stimolazione emotive di Mario Nigro che si propagano in uno spazio e in un tempo totali, le superfici bianche di Castellani, gli oggetti cinetici di Gianni Colombo, le esperienze di “design” di Bruno Munari, le forme espanse di Bonalumi, le prime ricerche di Dadamaino, di Paolo Scheggi, Grazia Varisco, le proposte teoriche di “Azimuth” e del “Gruppo T”. Ma dall’altra parte della barricata neo-costruttivista o minimale, l’Informale continuò ad essere il momento di partenza per una voglia di racconto che ha in breve generato la “neo-figurazione”, etichetta molto discutibile e onnicomprensiva   , postulante istanze di integralità, di organicità, quasi subito accademizzata, come si è potuto agevolmente constatare da alcuni quadri presenti alla Biennale di Venezia 1978 nella sezione: “Finestra/interno”. In questo clima un po’ torbido di “santa-alleanza” si evidenziano: per autonomia creativa, per un impianto coerente di azione e di pensiero, come macchina che produce lavoro ma anche “qualità”, le posizioni di Baj (con i “Generali” sempre più carichi di medaglie come ex-voto), Dova con le sue sollecitazioni materiche e segniche alludenti ad atmosfere inquietanti, Bertini sempre vitalmente proteso verso la vertigine dell’immagine in movimento, e alcuni artisti più giovani che cercano motivazioni il più possibile oggettive. Pensiamo ad Umberto Mariani (con frequenti echi pop), Bellandi, Aricò, Stefanoni, Tadini, Rossello (come recuperi cubo-futuristi), alle sculture “fantastiche” di Alik Cavaliere. Più defilati perché legati al tema costante del naturalismo lombardo (drammatica fusione di paesaggi e uomo) i Banchieri, i Vaglieri, i Cazzaniga, i Della Torre.
Ha scritto Fagone, attento lettore del lavoro di questi artisti: “nel 1968 gli artisti lombardi occupano la Triennale di Milano, ne impediscono lo svolgimento come festa del bell’oggetto di consumo, come commercio di immagini lucide e suadenti. Fino a quando la polizia con la forza non li costringe a sgomberare, si riuniscono in concitate assemblee, si interrogano sulla possibilità di un lavoro più ampio e diretto oltre il confine delle istituzione; sui muri della Triennale una scritta dice: Milano = Parigi. A Milano come a Parigi gli artisti cercano di trovare una distanza critica rispetto al mercato e al potere, rispetto a una nozione stessa dell’arte che è ancora legata al privilegio di pochi”. Molti operatori si rendono conto con pena che non è più sufficiente fare il “quadro”, bisogna che l’artista trovi oggi più che mai la capacità di mediare e collegare dati diversi nascenti da riflessioni e associazioni non soltanto di pensiero. Esso sembra ora aver trovato la strada più difficile, ma forse anche la più produttiva. A piccoli gruppi o isolati alcuni portano puntigliosamente avanti una ricerca, non dimentica delle proprie radici, che va verso l’elaborazione di elementi segnico-cromatici-progettuali. Pensiamo a Italo Antico (con le sue sculture-segno che indagano lo spazio-tempo), a Ignazio Moncada (arrivato dalla Sicilia, che con le su carte trasparenti incorporate alla superficie comunica il senso mordente e spietato dell’usura del tempo), a Carlo Nangeroni (con le sue strutture cromatiche che si danno come filtro di una luce che genera processi di spostamento) a Nanni Valentini (da qualche anno a leggere il geometrico come simbolo dell’esistere, di una sua dimensione oscura ma ineluttabile), a Giancarlo Sangregorio (produce le sue forme plastiche in pietra e legno che si incastrano con aspra tensione) a Emilio Scanavino (che continua a evidenziare il valore della traccia come scansione inestricabile del tempo). Ce ne sono altri invece che cercano immagini-oggetto che partendo dai mass-media si dispiegano come messe in forma di una nuova iconografia tecnologica giocata naturalmente sull’ironia e sulla dissacrazione. Pensiamo alle attuali tele con le lettere insonorizzate da un’imbottitura e private della oggettualità visiva di Umberto Mariani, agli oggetti-immagine, significato elencati con meticoloso puntiglio da Tino Stefanoni, agli uomini imbavagliati e violati dagli “invisibili” carnefici del potere di Sergio Sarri, agli scarnificati uomini-oggetto o oggetti-uomini di Mario Rossello, alle fantasie lineari di Gianni Secomandi che diventano traccia di un passaggio umano, e un po’ defilato nella sua concettuale ricerca sui nodi e i tempi di strutturare la citazione da quadri celebri, di Aldo Mondino. Molti degli operatori testè citati, al di là degli schemi in cui maldestramente li abbiamo collocati per comodità, sentono sinceramente la necessità di recuperare una dimensione non classista dell’arte, una dimensione non asettica di partecipazione, che metta l’accento sul problema della fruizione e dell’automotivazione dell’artista capace di conciliare l’esigenza quasi biologica del creatore, che vuole esprimersi compiutamente e individualmente, e la necessità di confrontarsi “socialmente” in spazi non clientelari, ma di intervento culturale ed ideologico. Siano pittori o scultori, essi sentono con chiarezza l’importanza, il peso, l’urgenza di analizzare il senso dei propri gesti attraverso il “fare”, verificando volta per volta il potere sperimentale della pittura, della plastica, proponendo al pubblico, a seconda del proprio percorso culturale, una “geometria” spogliata di ogni aura (come aveva ipotizzato Benjamin) che privilegia una linearità storico-oggettiva, o una riflessione nella condizione dell’uomo-particella e delle cose che gli ineriscono, schiacciato in questa società senza centro e senza pace. 

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