Gualtiero Schoenenberger, presentazione
Galleria dei Mille - 1974
Dire che la pittura di Gianni Secomandi è “cosmica”
non è una semplice
definizione buttata là tanto per trovare un’analogia di comodo basata
su coincidenze esteriori. La realtà degli spazi infiniti, dei corpi
celesti che li occupano, la continua, quotidiana osservazione del
cielo, fanno tuttuno con la ricerca artistica di Secomandi. Nello
studio dell’artista, un “orologio cosmico” segna il passaggio, le
posizioni dei pianeti e delle stelle. Si tratta di una presenza reale,
di una visualizzazione immediatamente afferrabile di una realtà che
sembra lontana e avvolta nel mistero.
Secomandi si avvicina a questa realtà senza complicazioni simboliche
o magiche (è l’opposto di un astrologo), tuttavia lo fa con animo
di poeta.
L’osservazione del cosmo non è per questo artista singolare il pretesto
a spunti descrittivi con una tematica un po’ diversa dalle solite,
ma costituisce l’avvio a un seguito di meditazioni, poi tradotte in
immagini, sullo spazio, sui diversi spazi. Il rapporto fra finito
e infinito sta alla base dei suoi quadri di quattro o cinque anni
fa in cui appare frequentemente la sagoma di un occhio, coperta di
materiale specchiante, quasi a simulare la funzione di “contenitore”
dello spazio ambiente del nostro organo della vista. Anche se lo spazio
esiste in sé, è però tramite l’occhio umano che lo possiamo misurare.
La nozione d’infinito va riferita all’uomo e acquista senso se paragonata
alla finitezza dell’uomo. Se l’occhio va inteso come riflesso dell’esterno,
ed è già, in quei quadri del 1968/69, finestra sull’infinito, nella
serie di quadri che seguono, Secomandi si è accinto a restituire l’immagine
di questi mondi lontani: non in maniera puramente descrittiva, da
inventario, ma mostrandocene la relatività mediante vari inserti,
sulla superficie dell’opera stessa, che ci introducono nelle molteplicità
dei punti di vista (rapporto mutevole fra infinito indeterminato e
particolare focalizzato, isolato, ingrandito, con una sua legge propria
e proprio spazio attorno). Forse in questa serie di opere, pur sempre
affascinanti per l’atmosfera contemplativa che emanano, vi è da rilevare
un eccesso di “vedutismo” (lo spettatore è invitato a “guardare” da
un punto di vista preparato e orientato, come se vi fosse un cannocchiale
invisibile a portata di mano). Nelle opere più recenti, questi dati
in fondo aneddotici sono scomparsi.
Secomandi ha preferito concentrare la sua ricerca sul problema dell’incontro
fra due spazi diversi. Mentre prima assistevamo da lontano a uno “spettacolo”
cosmico, o più esattamente ci limitavano a contemplarne un momento
isolato (staccato nel tempo e nello spazio), in queste opere recenti
ci sembra di assistere da vicino allo svolgersi di avvenimenti. Gli
inserti materici sulla superficie del quadro non sono preziosismi
o sottolineature illusionistiche del dato reale riportato, bensì segnano,
in modo quasi plastico, un moto o diversi moti di espansione o di
repulsione dello spazio, della luce, di una materia in divenire. E’
proprio in questo sottile e rarefatto gioco di attrazioni e fughe
che appare il lato più interessante di questi dipinti. Ma è anche
nell’impasto equilibrato fra poetica e in parte ingenua ricostruzione
e meticolosa osservazione che va ricercata la qualità di questa ricerca.
Una ricerca condotta in questi anni al di fuori delle mode del momento
(senza compiacimenti per il gusto del gesto, prima, e dell’assemblaggio,
dopo) che attualmente, attraverso una via tutta personale, rivela
punti di contatto con l’arte concettuale e il rinnovato senso della
realtà.
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