Eligio
Cesana - "Gianni Secomandi" in Uomo e Immagini n. 11/12
- 1965
Com’è accaduto per Burri
o per Tàpies, le proposte materiche di Secomandi non hanno funzione
e valore di polemica ma tendono con mezzi nuovi e diversi ad una comunicazione
visiva non dissimile, nell’essenza, dalla pittura tradizionale: la
rottura sta nel linguaggio; nel sostituire la REALTA’ della materia
e della luce, alla finzione ottenuta con linee chiaroscuro e colore;
ne nascono però, accanto ai valori tipici del discorso pittorico,
nuove e diverse significanze.
Lamine e filamenti metallici, specchi e zone tinteggiate, si equilibrano
nella superficie e sono rigorosamente strutturare nel perimetro del
“quadro” che non è momento occasionale ma conserva la sua strumentalità
di contenitore ideale del discorso visivo.
L’architettura dell’immagine dimostra un’intima esigenza di proporzioni
auree; i rapporti cromatici e tattili nascenti dall’incontro delle
diverse materie sono sottilmente calibrati; gli scarti di profondità
creati dall’addizione graduale degli oggetti alla superficie, rispondono
al suggerimento di una prospettiva interiore; la contrapposizione
del lucente all’opaco permea di respiro lo spazio e l’incidenza di
inserti lineari lo scandisce ritmicamente; la luce interviene come
elemento formatore della realtà percepibile visivamente, causa dinamica
di immagini definite. Coi mezzi scaturiti dalla crisi del linguaggio
pittorico tradizionale, Secomandi tende infine ai valori inconsumabili
della classicità, per riproporre l’intima significanza e non ripetendone
stancamente gli stilemi, come accade nei ricorrenti ritorni del neoclassicismo.
C’è nella coerente ricerca di Secomandi un impegno che per certi versi
si potrebbe dire umanistico; a ben vedere, lo dimostra anche la stessa
adozione dello SPECCHIO come elemento risolutore della composizione;
come mezzo per conciliare con razionalità sperimentale, l’esigenza
di una compattezza (resa di tattile evidenza dalle saldature e dai
chiodi che legano gli inserti materici alla superficie) colla profondità
dell’immagine.
Collo specchio inserito nel centro focale delle composizione, Secomandi
imprigiona luce naturale nella pittura; introduce un’ALTRA dimensione,
aprendo l’immagine a possibilità infinite di mutazione, che tuttavia
non rompono la rigorosa architettura complessiva né da questa riescono
soverchiate; anzi l’equilibrio costante fra momenti statici e dinamici,
germina il sospetto di una presenza vitale nella struttura inanimata.
Lo specchio ha prerogative misteriose benché riconducibili a leggi
conosciute; la riflessione delle cose e la rifrazione della luce sono
spiegabili come rapporto di cause ed effetti, senza però che scompaia
del tutto la componente magica, legata alle proprietà sorprendenti
dell’oggetto.
Attraverso lo specchio l’osservatore penetra nella pittura percorrendo
profondità inesistenti ma percepibili; si crea un rapporto biunivoco
fra l’opera ed il fruitore che, in ciascun istante, di essa si sente
partecipe ed estraneo insieme, che ogni volta gode di un aspetto singolare
ed irripetibile dell’immagine, per la mutabile incidenza della luce,
del punto di vista e dell’ambiente circostante. Ne nasce un riverbero
di stupore controllato dalla ragione; la sensazione di contemplare
PARTECIPANDO; di realizzarsi nell’immagine, sentendo la presenza di
una misura che condiziona ma non opprime.
In questo equilibrio dialettico tra concretezza e magia, tra rigore
di struttura e apertura dell’immagine, sta la singolarità e la pregnanza
della proposta di Secomandi, la cui opera va destando sempre maggior
interesse fra gli osservatori più attenti e non alieni dall’arrischiare
un passo fuori dall’amenità riposante dei luoghi consacrati della
tradizione o dell’avanguardia.
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