Eligio
Cesana - presentazione, Galleria Giuli, Lecco - 1976
Dagli ultimi anni cinquanta
- quando smette i colori a olio e comincia a cercare efficienti alternative
ai pennelli - gli strumenti
espressivi che Secomandi ha trovato, sono tanti, singolari e sorprendenti
sia per felicità d’intuizione che per risultato.
Il suo sperimentalismo concreto (come dire, poca teorizzazione e massimo
impegno, provando e riprovando, nel selezionare ogni possibilità)
e la scarsa inclinazione a vestire le uniformi, hanno sempre evitato
coincidenze evidenti con le tendenze ufficiali:
il che non facilita una classificazione convenzionale del suo lavoro
e, neppure, una lettura secondo tipologie altrettanto convenzionali.
In realtà, ripercorrendo il suo lungo viaggio, si intende che Secomandi
è passato (al momento giusto, talvolta persino in anticipo) attraverso
territori frequentati dalle avanguardie dichiarate, ma sempre con
veicoli personali e per seminare del suo.
Così, ha partecipato da indipendente alle ricerche sul segno e a quelle
polimateriche, ben presto estese al reimpiego di oggetti ready-made:
ha incrociato con quelle degli spazialisti e ha sentito le ragioni
dei neocostruttivisti (in una prospezione tanto scarnita da diventare “minimale” ante litteram) con precoci aperture
alla dialettica tra oggetto e immagine, tra immagine fissa e mutevole.
Ma nel divenire del suo lavoro, si scoprono anche sottili analogie
con le intenzioni dell’arte povera e del concettualismo: perfino (e
malgrado l’evidente differenza di metodo e dì mezzi) con certi significati
della land art.
Tante articolazioni di linguaggio e di argomento, non hanno però fatto
di Secomandi un eclettico (anzi sorprende l’unitarietà sottesa all’intero
arco del suo lavoro) come ciascun mezzo impiegato risponde a precise
esigenze espressive e non, semplicemente, alla voglia dell’inedito
in sé.
Fin da principio, ha prediletto i materiali più poveri, per le loro
prerogative naturali: come le limature di ferro ossidate o polveri
di alluminio, per un’indicazione quasi tattile di luminosità ardenti
o glaciali; filamenti fusi di stagno per una grafia oggettuale, non
incrinata dall’emozione immediata né sofisticata dall’eleganza corsiva
dei segni manuali.
Dal 1963 e per alcuni anni, usa lo specchio, esplicitamente allo stato
di reperto (quelli “retrovisori” dei veicoli) ma con evidente funzione
strumentale: per un’antitesi tra luci e profondità del campo visivo
reali e mutevoli — riflesse dallo specchio — e quelle simulate e statiche
che compongono l’architettura dell’immagine; una dialettica che poi
si complica dei rapporti con superfici metalliche semiriflettenti
e, tra la scansione rigida di uno spazio costruito ed il chiaroscuro
“naturale” e fluido, ottenuto con impalpabili volute di fumo.
Quando l’interesse per gli studi astronomici finirà col dettare a
Secomandì anche un preciso campo di lavoro (in pratica, sostituire
agli spazi inventati, quello reale ma imperfettamente percettibile
del cosmo) gli nasce anche il bisogno di altri mezzi e li trova: dalle
punte rotanti per incidere la vite senza fine dei moti spaziotemporali,
ad un incredibile repertorio di microoggetti, ai fotogrammi, ai segni
e alle cifre convenzionali dei tempi e delle coordinate stellari,
fino alle combustioni prodotte con gli stessi raggi del sole, nel
punto dell’immagine dove matematicamente si collocherebbe la sua presenza.
Riesce, con questi mezzi, a superare i pur suggestivi limiti di un
impressionismo spaziale, per esprimere attraverso la concomitante
presenza di espressioni sensoriali e concettuali, il contrappunto
tra forme chiuse o proporzioni particellari. con l’apparente e smisurato
informalismo globale, dei grandi sistemi cosmici; ma, più sottilmente,
annota l’inquietante dialettica che corre tra le dimensioni cosmiche
e quelle umane, a livello di percezione e di conoscenza.
Proprio il rapporto tra uno spazio e tempo controllabile coi sensi
e quelli concepibili solo mentalmente, diventa argomento delle sue
opere più recenti.
Quando col segno manoscritto (recuperato non per nostalgia, ma perché
il più rapido ad annotare i fenomeni nell’attimo stesso in cui si
avvertono) registra tutti i movimenti percepiti nello spazio circostante,
lungo un arco di tempo misurato e dichiarato secondo le coordinate
dei moti astrali: dal graduale passo del sole, al moto svelto degli
uccelli, a quello sonoro degli insetti, ad altri indefinibili rumori,
odori e umori che tradiscono una “vibrazione dell’etere”.
Con la stessa riduzione, registra anche dei passaggi umani: come l’andirivieni
di vecchi nel cortile di un ospizio, dove alla fine ogni linea dirà
“semplicemente” che è passato qualcuno o qualcosa; a cui nessuno domanderebbe,
né lo ritiene importante, perché cammini, né cosa cerchi o pensi o
creda. Un movimento come ogni altro, precario o costante, di corpi
inerti o vivi che, fenomenicamente, provoca soltanto una vibrazione
in più. Appena un po’ più incerta o tremula o divagante e fisicamente
vicina, di tante altre che si producono da qui alle stelle.
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