Luciano
Caramel -
presentazione, per mostra Villa Manzoni Lecco maggio-giugno 1984
Scrivere
di Gianni Secomandi in occasione di questa sua prima importante retrospettiva
(preceduta solo da quella dedicatagli dalla natale Vercurago ad un
anno dalla scomparsa immatura) è per me occasione di ricordi, ma anche
di riflessioni, cdi rimpianti.
Di ricordi, innanzi tutto. E di ricordi remoti, che rimandano ai tardi
anni ’50, quando sia io sia il pittore stavamo muovendo i primi passi,
ciascuno nel proprio campo. L’incontro tra noi avvenne nel 1958, nella
saletta ove erano esposte, a cura del generoso, non dimenticato Pino
Tocchetti, le opere concorrenti al “Premio Manlio Rho”.
L’artista era impacciato, persino con un “critico” appena ventenne;
ed anche, e forse di conseguenza, un po’ misterioso. Le opere, ad
olio, partecipavano dell’allora diffuso clima informale con personali
qualità di strutturazione della superficie dipinta, già dialetticamente
vivacizzata da accensioni luminose, organizzate in larghe stesure.
Mi colpirono, come il loro autore. Ne scrissi anche, sul giornale
locale che promuoveva il premio. Ed in seguito ci vedemmo più volte,
a Como e altrove.
Conversazioni ed incontri sfociarono nella “presentazione” che nel
1961 Secomandi mi chiese per la sua prima mostra personale a Milano,
nella Galleria Pater. Credo anzi si tratti del primo testo dedicato
ai pittore. Ed è per questo, penso, che gli organizzatori della presente
retrospettiva hanno voluto il mio intervento. Ché altrimenti si sarebbero
dovuti rivolgere ad altri, che più assiduamente e puntualmente, sino
alla fine, abbia seguito l’iter del pittore. E penso in primo luogo
a Eligio Cesana, che dall’amichevole consuetudine con l’artista ha
tratto stimolo per osservazioni finissime ed illuminanti: ultime,
quelle redatte in questi stessi giorni sui “ritratti” con cui Secomandi
ha concluso la sua attività. “Ritratti” di poeti, filosofi, narratori,
dettati, precisa Cesana, “dall’urgenza, si direbbe dalla premonizione
di rivisitare gli autori di messaggi culturali e di espressioni poetiche,
di cui Secomandi s’era nutrito giorno dopo giorno, fino ad assorbirli
come parte viva del suo pensare, del suo sentire, del suo modo di
esistere”. Osservazioni che ho constatato essere fondate sull’effettivo
modo di essere, e di fare arte, del pittore. Solo ora, tuttavia, con
pienezza, di cui do qui testimonianza. Confesso infatti di non aver
dato il giusto peso alle frequenti citazioni, appunto da poeti e narratori
e filosofi, che comparivano nel retro delle opere, vergate dall’artista.
Il sospetto - ma quanto ingiustificato - era che Secomandi giustapponesse
alle sue immagini i riferimenti a Pascal, Proust, Kafka, Gozzano,
Sartre, Camus, Goethe, D’Annunzio, con un processo solo fino ad un
certo punto motivato e conseguente. Mentre era la dichiarazione del
punto di partenza; anzi di una condizione spirituale mantenuta viva
durante l’intera realizzazione dell’immagine. E la reticenza della
superficie dipinta relativamente a tali nessi era prova della loro
profondità, del loro risolversi in personale, intima unità.
Qualcosa di simile, del resto, già era avvenuto per la lunga e nutrita
serie di lavori in cui erano insieme coniugati interesse per l’astronomia
e pittura, con relazioni ancora una volta non di contiguità, ma di
profonda interdipendenza. Le precise didascalie che Secomandi apponeva
ai suoi quadri, con analitiche descrizioni di effemeridi, coordinate
astrali, angoli solari, eccetera, non sono indice del desiderio di
portare nell’arte la scienza, o viceversa. Sono piuttosto la traccia
di una dimensione operativa non appiattita su astratte specificità,
con le conseguenti, e altrettanto astratte, separazioni. Secomandi
viveva poeticamente l’osservazione degli spazi siderei. Essa non è
stata mai, ha a suo tempo opportunamente sottolineato Gualtiero Schoenenberger,
“il pretesto a spunti descrittivi con una tematica un po’ diversa
dalle solite, ma costituisce l’avvio a un seguito di meditazioni,
poi tradotte in immagini, sullo spazio, sui diversi spazi”. Spazio
definito e spazio infinito appaiono infatti sulle sue tele e tavole
quale risaltante di siffatto guardare e pensare e sentire.
Secomandi sapeva bene come “la nozione d’infinito va riferita all’uomo
e acquista senso se paragonata alla finitezza dell’uomo”, per usare
ancora le parole di Schoenenberger. Il che non vuol dire pessimistico,
o mistico, annullamento dell’uomo nel cosmo, ma avvertenza della pluralità
di dimensioni, e condizioni, dell’universo. Con esiti di potenziamento
del fascino dell’immagine, realtà in bilico tra altre differenti realtà.
Nel guardare entro e fuori di sé l’artista non ha mai infatti declassato
il dipingere a puro momento descrittivo, o di testimonianza, Il quadro,
insomma, non è stato per lui qualcosa di superfluo. Ed invece momento
privilegiato del suo modo di essere, che in esso trovava - o almeno
cercava - la sintesi. Di qui la constatazione, che questa completa
retrospettiva esalta, dell’ininterrotta connessione tra itinerario
spirituale e vicenda espressiva, con lo scaturire dai presupposti
diciamo così di “contenuto” di sempre rinnovate soluzioni di linguaggio.
Lo sperimentalismo che innerva l’intera storia artistica di Secomandi
non è infatti mai autoriflessivo. Il suo linguaggio non è mai metalinguaggio.
È sempre “motivato da” e “in funzione di”. Così, come nelle prime
fasi egli non cade - lo sottolineavo in quel vecchio testo del 1961
- nell’arcadia tardoinformale, con tutto il suo corredo di svigorito
gestualismo e di estenuato materismo, analogamente nel momento “astrale”
non è isterilito da un interrogarsi solo interno all’arte. Ed il ricorso
ai materiali più diversi non è tautologico, né, meno che meno, funzionale
all’esaltazione del tecnologico o del primario.
Certo, Secomandi aveva la “capacità quasi medianica di rendere espressivi
anche i materiali più riluttanti ad ogni temperamento sensibile o
di interiorizzare i segni apparentemente più asettici” e quella altrettanto
sorprendente “di trasformare un accumulo di dati selezionati dalla
ragione in un tessuto vivo e vibrante” motivatamente riconosciuti
da Cesana. Ma sempre con tempi lunghi trasferenti il guardare nell’approfondire,
il pensare nel meditare. E con una sorta di sedimentazione del vissuto,
che non è distacco, ma volontà di cogliere l’essenza, evidente anche
in quelle opere che più parrebbero legate alla flagranza del contingente,
nel fissare le tracce della passeggiata del fringuello o i movimenti
dei vecchi nell’ospizio. Lavori straordinari per la capacità in essa
dimostrata di dilatare il particolare senza perderne la concretezza,
di renderlo significante di una condizione che è propria e degli altri.
Soggetto ed oggetto, infatti, sono tutt’uno nella dimensione contemplativa
di Secomandi, come particolare ed universale, aspetti di un unicum
che esiste, anche nelle parti, in quanto tale. Senza, tuttavia, approdi
metafisici, estranei al pittore, che agisce concretamente nel determinato,
che non è filosofo - né ideologo - , ma artista, con le implicazioni
dell’etimo.
E se dovessi concludere con una raccomandazione queste riflessioni
- fatte col senno di poi, su di un’opera ahimè irrimediabilmente conclusa
- , mi appunterei proprio su tale determinatezza fabrile, il cui parziale
disconoscimento ha anche a me impedito, dopo la iniziale consonanza,
una più piena comprensione del lavoro di Secomandi.
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