Giorgio Albertini


"Anche il cielo si fa chiaro"
Val Porcellizzo 1994
acrilico su tela
cm. 89 x 116

LA "CAMERA" DIPINTA

(...)...Nel 1839 viene annunciato il primo processo di fotografia.
Il mondo, la società, l'individuo subiscono una tale accelerazione che non si intravede nemmeno il punto di caduta. Un'invenzione sconvolge l'universo della visione e della percezione del reale. L'approssimazione non è più consentita e, nel contempo, libertà assoluta all'approssimazione. Non è una contraddizione. Il pittore Paul Delaroche fu il primo a comprendere che cosa sarebbe avvenuto: "...In tale procedimento il pittore troverà un mezzo rapido per eseguire un complesso di studi che non riuscirebbe mai ad ottenere se non con molto tempo, difficoltà ed in modo decisamente meno perfetto, per quanto abbia talento... L'incomparabile scoperta del signor Daguerre è un immenso servigio reso alle arti". La fotografia, la ricchezza dei minuziosi dettagli e la sua precisione, è il "modello". Immobile e docile, non muta espressione, non soffre l'ingiuria del tempo, tormentando l'artista con l'inquietudine del tratto imperfetto. E per contro, approssimative ed astratte possono finalmente essere le immagini della pittura. La fotografia assolve il compito di tramandare eventi e dottrine. Il movimento . Si scopre che le fasi sono una sequenza senza interruzioni e lo si raffigura per come non lo si vede. "Un cavallo in corsa non ha quattro gambe. Ne ha venti ed i loro movimenti sono triangolari". L'artista continua a copiare e pretende di copiare così bene da aver superato la precisione della fotografia nel riprodurre la realtà esterna. Iperrealista, si crede, come se nella trasposizione convenzionale della pittura si potessero aggiungere degli indici di super-visualizzazione". "Allora la Camera non è dipinta, è essa che dipinge".
(...) Questo è un malizioso calambour di un artista, Giorgio Albertini, che non usa la camera... Albertini usa pennelli, colori e tele. E' un pittore nella più pura delle tradizioni, ma con la sua operazione svela la trama debole delle modalità dell'arte. O per lo meno, della convenzionalità alla quale - teorici, produttori e fruitori - si è legati. La sua "camera" non è né superficie né matrice, non accoglie segni né li produce. Gli antenati chiamavano disegni fotogenici le figure impresse dalla luce, e disegni fotografici quelle ottenute con il processo del signor Daguerre. Non erano disegni e non lo sono nemmeno oggi. La camera è un meccanismo che riprende ciò che si desidera conservare in immagine. Albertini inverte i termini linguistici delle funzioni per indicare dove sta l'inganno e tende una trappola intrigante sulle ben schematiche, e certe, suddivisioni delle correnti e delle arti visive. La fotografia è mezzo e materia. Mezzo espressivo dei fotografi e materia dei pittori e gli artisti contemporanei... Pop-Art, Concettualismo per tutti i suoi rivoli, Mixed Media... e "modello" ancora, sebbene pochi osino confessarlo. Per Albertini la fotografia non è niente di tutto questo e non è nemmeno schiavo dell'oggetto. L'immagine fotografica - spesso soltanto il frammento - è impulso verso il viaggio dell'immaginario. Guarda una fotografia, già prodotta da altri, e scopre in essa l'aderenza visiva/concettuale che si era formulata nell'intimo delle sue narrazioni. Il riferimento oggettuale è preciso e riconoscibile: paesaggi, fiori, nature morte e personaggi, in movimento alla "maniera" del Fotodinamismo Futurista. Eppure i dipinti di Albertini sono astratti. Un astrattismo anti-convenzionale che si inserisce fra forma simbolica ed oggetto annullato. La dilatazione esasperata stravolge la nostra sicura conoscenza del reale e ci trascina in un mondo in cui ignoriamo le regole dimensionali come Alice che si perde nell'angoscia di steli grandi al pari di baobab e naviga in tazze che sono vascelli o come cavalli che temono l'uomo per la gigantesca figura che il loro occhio percepisce. E quale è la reale dimensione delle cose? Quella che riteniamo a "misura" d'uomo. E' possibile, allora, che in Albertini la dimensione non sia soltanto legata all'esigenza espressiva dell'artista, ma che indichi la sua intuizione di un mondo costruito su un'altra convenzione: quella dello strumento della visione che vincola le proporzioni. E questa operazione di ingrandimento pittorico di un'immagine o di frammento fotografico sottolinea la sua attitudine a mettere in crisi i codici convenzionali della rappresentazioni visiva.
(...) Autentico artista è colui che vive il suo tempo, ne percepisce le pulsioni e, in metafore, trasmette a noi le esperienze della sua analisi. La fotografia, nell'attuale società dell'immagine, si è impadronita, pervadente e persuasiva, della comunicazione e della conoscenza. L'artista non la può ignorare, o peggio ancora disprezzare. Giorgio Albertini è cosciente della società in cui vive e quale ruolo gioca la fotografia, però non la assorbe, passiva vittima di un sistema che utilizza ciò che più conviene e che per mezzo dell'immagine di largo consumo esercita un potere ipnotico. Non la strumentalizza nemmeno per rendere più agevole il suo percorso creativo o lusingare le nuove mode. La studia e la corteggia e, da eccellente amante, trattiene nella memoria le singolarità che meglio si sono imposte alla sua sensibile fantasia. Sulle sue tele trasfonde l'intimità del "rapporto": certi contorni sono sfumati, l'immaginazione dell'osservatore deve agire in libertà per possedere la forma; altri particolari sono riportati con delicata perfezione.
(...) La precisione minuta del segno è una virtuosa abilità artistica, certamente è andata perduta nei decenni a noi prossimi, appartiene alla grande tradizione della pittura ed è inoltre, l'esaltante rivelazione della fotografia.
(...) Albertini è riuscito ad intrecciare ed armonizzare il vecchio ed il nuovo a diversi livelli intellettuali. La tradizione della pittura e la fotografia, rivendica la manualità ed analizza il potere dei mezzi di comunicazione visuale. Integra un tipo di immagine con l'altra e ne crea una terza, intrigante, appare quale tradizionale icona e concettualmente rappresenta la simbiosi creativa di due espressioni che nei tempi moderni, ambiguamente, sono state separate o soggiogate una all'altra, a seconda delle formule dell'arte.
(...) Albertini ci regala qualcosa in più che gli artisti non autentici non sono mai stati capaci di dare: la gioia di guardare coinvolgendo le nostre capacità emozionali e smuovendo i nostri meccanismi della riflessione intellettuale.

Giuliana Scimé


GIORGIO ALBERTINI nasce a Milano nel 1930 dove compie gli studi.

Nel 1961 incomincia ad esporre nell'ambito di una pittura che, se pure di tipo informale, ha riferimenti naturalistici. Nei primi anni settanta inizia il discorso su un tipo di figurazione che nasce con il tramite della fotografia. Si hanno quindi i cicli delle "Immagini ritrovate", dove i personaggi degli album di famiglia vengono ripresi ironicamente nella loro staticità. Segue poi il ciclo del "London Inclusive Tour" con i suoi seducenti soldatini ed i suoi splendidi cavalli che escono dai pieghevoli dell'agenzia turistica. Quindi il ciclo del "Vecchio West" ma non con le doverose implicazioni storiche, bensì con la banalità del catalogo degli articoli western degli empori cittadini. Seguono le operazioni su "Venezia" e sui "Fiori". Negli anni ottanta lavora sulla "Natura morta" altalenante tra l'immagine tratta dalla composizione pubblicitaria della carta patinata e la memoria del brano pittorico del secolo d'oro della "Stilleven". L'ultima ricerca è sulla "Montagna" colta in un preciso "punctum temporis" pervenendo ad una pittura che dissacra se stessa, nell'attimo stesso in cui simula di mostrarsi leggibile e piacevole.


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