Archivio Attivo Arte Contemporanea
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COSMOGONIE
il grande mistero dell’universo esplorato da
Paolo Barlusconi
progetto culturale interdisciplinare a cura di Michele Caldarelli

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UN IMPERO STELLARE
di Luigi Picchi

Un tempo i grandi maestri, toccando una qualsiasi particella dell’essere, davano il sentimento di tenere tra le mani il mondo palpitante di vita nella sua totalità. Adesso su pannelli immensi il mondo si restringe alla povertà di alcuni frammenti. (Pavel Evdokimov)

 

Gli antichi Romani sono arrivati pressoché dappertutto. Perfino sulle stelle. Certamente, non fisicamente, ma con l’immaginazione e il pensiero sì. Ad esempio nel Somnium Scipionis (54-51 a. C.), di cui sono debitori il Dante del Paradiso (cfr. Canto XXII) e il Keplero del Somnium Lunae, Cicerone, l’autore, immagina che Scipione l’Emiliano, moderator rei publicae, abbia una stupefacente visione notturna dove in compagnia dell’avo Scipione l’Africano, intraprende una sorta di viaggio siderale, un’ascensione planetaria, occasione per una generale riflessione politica e morale: «Fino a quando la tua mente sarà fissa a terra? Non vedi gli spazi a cui sei giunto? [...] Vedo che tu ancora tieni lo sguardo alla dimora dell’uomo: però se ti sembra, come di fatto è, infima, contempla sempre queste celesti entità e disprezza quelle della terra.[...] Se vorrai quindi alzare in alto gli occhi a questo eterno soggiorno senza abbandonarti alle chiacchiere del volgo e senza riporre la tua più profonda ambizione nella fama terrena, la virtù stessa ti attrarrà con il suo fascino alla vera gloria. [...] Sprona, dunque, la tua anima alle più nobili imprese, che sono poi quelle che impegnandoci per il bene della patria, intensificando l’anima, più prontamente le aprono le ali verso la sublime sede celeste.». Questa esaltazione per lo spazio come luogo glorioso e beato, premio delle virtù, non è un caso isolato, ma un vero proprio topos letterario e culturale che dimostra l’interesse vivo e costante degli antichi per la dimensione astrale. Numerosi sono infatti nella letteratura latina i poemi didascalici astronomici: gli Aratea (600 versi circa) di Cicerone, la parte finale del libro quinto del De Rerum Natura di Lucrezio, diversi passi di Virgilio, che venne tentato dall’argomento, ma ne trattò di sfuggita e digressivamente, i Phaenomena (giuntici parzialmente) di Germanico, delfino della casa Flavia ai tempi di Tiberio e infine gli Astronomica (in cinque libri) di Manilio. Ma, solo a titolo di segnalazione, a questa vera e propria moda aderirono anche Quinto, il fratello dello stesso Cicerone,  Sallustio, oltre che famoso storico, anche autore di Empedoclea non pervenutici, Catullo traduttore nella sua Chioma di Berenice dell’omonimo epillio di Callimaco,  un certo Egnazio con un De rerum natura, Ovidio con i Phaenomena (solo pochi frammenti, ma già nei racconti eziologici dei Fasti fa frequenti riferimenti alla mitologia astrale) e infine Avieno, poeta del IV secolo d.C., con gli Aratea. Anche per quanto riguarda la prosa parecchi scrivono di astronomia: oltre a Cicerone del succitato Somnium Scipionis e del De natura deorum, Varrone nel sesto libro dei Disciplinarum libri e in epoca augustea l’astronomo Igino autore di un trattato specialistico e delle Genealogie o Fabulae (leggende sulle costellazioni) e Vitruvio che ritiene indispensabile una certa cultura astronomica nella formazione del vero architetto e ovviamente l’enciclopedico Plinio il Vecchio, che si occupa di argomenti astronomici nei libri secondo e diciottesimo della sua summa scientifica, Naturalis Historia. Anche Marziano Capella (prima metà del V sec. d. C.) nell’ottavo libro del De nuptiis Philologiae at Mercurii, vasto trattato didattico in prosa e in versi, dedicato al figlio, si diffonde in considerazioni astronomiche, sempre secondo il principio ciceroniano che l’intellettuale deve essere uomo colto con una istruzione ampia e articolata. Questa è, ovviamente, solo una succinta mappa del territorio che ci interessa. Bisogna, però, premettere che la speculazione scientifica nel mondo latino non è particolarmente progredita. L’apporto dell’astronomia romana è pressoché nullo, mentre notevole è il debito nei riguardi delle scienza greche. Di conseguenza molte osservazioni astronomiche sono desunte da fonti precedenti con risultati eterogenei. Questo è dovuto alla particolare mentalità romana, pragmatica e sincretica. L’indole dei Romani non è portata alla speculazione pura, ma nella sua inclinazione verso l’operatività e l’efficienza, tende a “sfruttare” e a riutilizzare il lavoro altrui adattandolo, caso per caso, alle proprie diverse esigenze. C’è da dire poi che la scienza, intesa come ricerca e indagine, è appannaggio della classe dirigente, mentre l’aspetto applicativo, cioè la tecnica spetta alla classe dei lavoratori e dei servi. Proprio la presenza di una massiccia quantità di schiavi come mano d’opera, il disprezzo per il lavoro manuale, aggiunto al timore di turbare tanto l’ordine sociale ed economico quanto quello naturale allontanandosi con un peccato di hybris dallo stadio iniziale (il mito adamitico dell’età dell’oro), scoraggiano qualsiasi sviluppo del sapere scientifico e delle sue applicazioni. Un erudito come Plinio il Vecchio, ad esempio, è convinto (e con lui tanti altri) che il sapere umano sia limitato, che il patrimonio delle conoscenze sia circoscritto e non in espansione e che il lavoro dello scienziato/filosofo si debba semplicemente limitare a quello di custodire, catalogare, descrivere, collezionare e ordinare una quantità finita di informazioni. Esistono poi forti commistioni e interferenze fra astronomia, astrologia e filosofia. Mentre l’astronomia, di derivazione greca, studia specificatamente i corpi celesti con i loro moti e cicli, l’astronomia si dedicava ad interpretare, in base alle dinamiche delle costellazioni zodiacali, il destino umano, influenzato dalle stelle appunto. Queste due discipline poi, secondo la vocazione unitaria, eclettica, sincretica ed enciclopedica del sapere antico, si coniugavano con determinate scuole di pensiero filosofico: pitagorismo, platonismo, aristotelismo, epicureismo o stoicismo. Cicerone, oltre al Somnium Scipionis (parte di un più ampio trattato sulla natura dello Stato, il De Republica), ha dedicato all’astronomia ampie sezioni del secondo libro del De natura deorum dove riporta numerose citazioni dai propri Aratea, la traduzione che lui stesso fece dei Fenomeni di Arato di Soli (IV-III sec a.C.), autore alessandrino, poeta ufficiale della corte di Antigono Gonata, re di Macedonia, destinato ad essere ripreso e tradotto anche da Varrone Atacino, Germanico e Avieno. La visione di Cicerone è quella più diffusa, eminentemente romana, cioè ottimistica e provvidenzialistica, di origine stoica che intende l’universo come un tutto armonico regolato da uno Pneuma divino, una Ragione creatrice, che pervade ogni essere: «Ciò che suscita meraviglia nell’universo è la sua stessa stabilità, di cui nulla è più idoneo alla conservazione del tutto. Ogni parte, nel proprio sforzo di convergere al centro, realizza con tutte le altre un perfetto equilibrio, ma a rendere compatta e sicura la loro concordia è una sorta di attrazione reciproca che ha la sua fonte in quell’energia sparsa per il cosmo e che tutto armonizza razionalmente» (la traduzione di questa citazione come delle seguenti è mia). Una concezione questa che ritroveremo anche in seguito. L’argomento astronomico dei movimenti celesti è dal punto di vista poetico certamente arido e freddo e il lessico romano è per giunta ancora povero e inadatto a trattare temi scientifici (anche Lucrezio lamenterà questa patrii sermonis egestas cioè questa mancanza di un “vocabolario” specifico che sarà tutto da inventare). Intanto Catullo, secondo il gusto neoterico, traduce la Chioma di Berenice di Callimaco, episodio di catasterismo mitologico (la chioma appunto della regina Berenice racconta come sia stata trasformata in costellazione). Lucrezio, vate dell’epicureismo, interpreta i fenomeni celesti in un’ottica atomistica tutta laica e atea, ma non riesce a sottrarsi all’estetica dell’ascesa siderale: ecco quindi descriverci Epicuro, che, reagendo alla sudditanza dell’uomo, intimidito dalle minacciose vastità ignote del cielo, osa varcare con la forza della mente «la fiammeggiante muraglia del mondo» verso le plaghe dell’immensità celeste per riportare all’umanità superstiziosa la luce della verità cioè il segreto sulla natura delle cose. Lucrezio poi ci ha lasciato nel libro V, pagine sublimi sulla nascita dell’universo, dovuta alla varia e felice combinazione degli atomi, sui moti degli astri, il succedersi del giorno e della notte e sulle eclissi del sole e della luna. Scenari astronomici e soprattutto notturni non mancano nemmeno in Virgilio, che ha sempre cercato di emulare Lucrezio: «Lui infatti cantava come dall’immenso abisso/atomi d’aria, acqua, terra e fuoco s’unissero come per istinto/ e come da queste cause prime scaturisse il tutto, anche del mondo la sfera  duttile» (Egloga VI); «Sia il sole che sorge sia il sole che nelle onde scende/presagi darà e quelli più certi son quelli che dona la mattino o con le stelle alla sera » (Georgiche I, 439-440); «Così nella notte serena comete o Sirio di fuoco rosseggiano sinistre/quasi di sangue» (Eneide X, 272-273). Di un grandiosità quasi biblica è pure la trasformazione demiurgica dal Caos al Cosmo come ce la raffigura Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi. Come Cicerone, vessillifero dei valori civili, morali e culturali della Res publica, quindi del regime precedente il principato e l’impero, vede nelle stelle lo specchio, il simbolo, l’archetipo, la proiezione e la giustificazione dell’ordine costituzionale, sociale e politico e la meta di ogni elevazione etica e filosofica così i poeti dell’età imperiale continuano e approfondiscono questa visione in una prospettiva monarchica e autoritaria assoluta. La compagine dei corpi astrali diventa allegoria dell’impero, delle sue gerarchie e funzioni e il princeps è il nucleo regolatore e accentratore dello Stato, proiezione dell’Universo. L’astronomia viene dunque  impiegata in una raffinata e sagace operazione di propaganda politica. In un mondo dove le costellazioni rappresentano un patrimonio culturale comune e familiare ai più diversi strati sociali e a cui fare ricorso in varie necessità pratiche, la letteratura astronomica, soprattutto la poesia, può prestarsi ad esercitare un certo condizionamento. Germanico, nipote di Tiberio e suo “figlio adottivo” destinato quindi alla successione imperiale, è autore di Prognostica di chiara ispirazione aratea. L’astronomia/astrologia gode di una particolare attenzione durante la dinastia giulioclaudia: è un’epoca pervasa da un certo sentimento religioso e mistico, oltre che da attese messianiche incarnate di volta in volta dai vari principi, tutori della pace e dell’impero romano. Poeti come Virgilio o Calpurnio Siculo nelle loro egloghe cantano il ritorno di un’Età dell’oro e la monarchia è vista sempre più con connotazioni divine. Ma oltre a queste istanze politiche, etiche e civili, le stelle e i pianeti, coi loro movimenti e fenomeni (eclissi, comete, ecc.) si caricano di significati profetici, mistici, teocratici e soteriologici. Il rilancio della produzione agricola rende ancora più urgenti il calcolo e la previsione degli eventi meteorologici. Dopotutto è proprio Cesare, l’iniziatore del principato, a volere la riforma del calendario. Tiberio stesso s’interessa d’astronomia. Germanico, da parte sua, è molto più che un semplice traduttore di Arato. Infatti, prima di tutto, nella redazione del poema (di cui ci sono pervenuti circa mille versi), tiene presente anche Esiodo de Le Opere e i giorni e poi in parecchi passi si dissocia dall’originale sia apportando correzioni ed aggiornamenti scientifici sia distaccandosi laicamente dalla religiosità provvidenzialistica stoica del poeta greco. Allo Zeus stoico di Arato Germanico sostituisce un Giove che in realtà è il princeps, il genitor imperiale: Augusto o Tiberio. Questo perché gli interessa l’aspetto etico/propagandistico dell’astronomia piuttosto che quello tecnico. Il suo dio è l’imperatore e il politeismo è instrumentum regni per tenere unito il popolo. Ma il poeta astronomico più sistematico e specifico, quello che ci ha lasciato l’opera più dettagliata e completa è certamente Manilio, autore degli Astronomica: «In poesia le arti divinatorie e le stelle cangianti, presaghe/del Fato, le umane vicende, frutto d’una mente celeste m’accingo a interpretare dal Cielo e per primo farò risuonare di canti nuovi l’Elicona con le sue foreste che ondeggiano di verdi cime, riferendo di riti stranieri che prima di me nessuno evocò». Della sua vita nulla conosciamo (forse era un liberto). Il suo poema in cinque libri è caratterizzato da una marcata visione stoica dell’Universo quale espressione divina di un Logos (non mancano riferimenti al Corpus Hermeticum). Manilio crede nel destino determinato dagli influssi astrali quindi nel Fato cioè nella “Provvidenza” universale che ha voluto tutti gli esseri legati da “simpatia”. Il mondo è dunque un sistema organico regolato armonicamente da una ratio (contrariamente alla cosmologia epicurea degli infiniti e aleatori mondi aggregativi). Una comune logica collega stelle e uomini, cose, eventi, situazioni e persone. Tutto si collega secondo una superiore e divina regia: «divina una forza segreta l’intera natura regge/e con l’arcano suo moto un dio tutta/l’armonizza e governa con leggi misteriose/e ad ogni sua parte assegna una reciproca norma/ sicché l’una bilanci l’altra e l’insieme pur tra forze opposte resti compatto». La perfezione degli astri giustifica la missione di Roma. Dall’astronomia deriva la politica. In quest’ottica studiare l’armonia celeste significa riconoscere l’ordine politico, gerarchico, sociale dell’Impero e la poesia astronomica diventa celebrazione del principato, decifrazione del suo senso, quindi propaganda: «Proprio tu, Cesare, principe e padre della patria, che il mondo/governi con i tuoi eccelsi decreti, dio tu stesso, degno/del cielo che ora ospita tuo padre, forza mi dai per cimentarmi in questo difficile canto.». Oggi con tutte le nostre sonde, i nostri satelliti e telescopi siamo tecnologicamente più potenti ed efficienti degli antichi. La nostra scienza è sempre più precisa e vincente. Le nostre conoscenze si moltiplicano e crescono, precisandosi progressivamente, ma psicologicamente siamo meno forti e ormai incapaci di una maestosa e sublime concezione cosmologica che giustifichi ed esalti l’agire umano arricchendosi di significati politici, culturali e religiosi. Gli antichi con i loro metodi empirici e artigianali sembrano così infantili, eppure la loro concezione dello spazio sembra essere più maestosa ed eroica della nostra, la loro letteratura astronomica è più epica della nostra fantascienza involgarita e inflazionata da una produttività consumistica e commerciale. L’ipertrofica industria del romanzo e del cinema ha banalizzato i sogni astronautici della nostra fantasia. L’antroprocentrismo degli antichi era più sano e atletico, più equilibrato e giovane. Il nostro è alienato, depresso e saturato da secoli di civiltà sempre più tecnocratica e materialistica. Lo spazio degli antichi tendenzialmente aveva un’anima antropomorfica ed era la proiezione, anche un po’ narcisistica, dell’uomo. L’uomo si riconosceva ed immensificava nell’universo regolato da una comune Ratio. L’ordine del Cosmo (parola che etimologicamente significa proprio “ordine, armonia”) era l’ordine dell’uomo e viceversa.

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