Alik Cavaliere - Lo studio


Mi trovai, dunque, ingaggiato da De Sica quale esperto tuttofare (ancora una volta!) al servizio di mister Ned Mann, autentico mago holliwoodiano del trucco. L'unico neo nella collaborazione con l'americano - che era pagato migliaia di dollari a settimana e ospitato regalmente con moglie, all'Hotel Principe e Savoia - era costituito dalle sue gigantesche sbronze quotidiane che lo rendevano rabbioso, collerico al mattino e non più avvicinabile al pomeriggio. Il "mago" nei pochi attimi di sobria lucidità fingeva di ignorare di non essere negli attrezzati studios californiani, ma alla Icet di via Pestalozza, e dava nel suo gutturale, impastato slang americano direttive forse geniali, ma assolutamente per me insufficienti (passavo dai ritratti degli attori protagonisti, stampati in lattice di gomma, da far indossare alle controfigure, ai pupazzi animati di dimensioni variabili, raffiguranti i vari personaggi con e senza le ali, da far volare su finte scope, sospesi nel cielo di Milano sopra il Duomo...). E poiché ogni mattina si presentava l'autista della produzione per ritirare il materiale da girare trascororrevo le notti, più che a fare, a cercare di capire cosa, come e perché... confortato dal Piccoli che avevo a mia volta nominato aiuto-esperto. E il Bobo si rivelò prezioso perché riusciva a tenerci entrambi svegli nelle lunghe ore di congestionato lavoro canticchiando canzoni popolari piene di mala, sangue, nostalgia e passione. Questa storia nella storia c'entra, e come! Per quanto imbrogliati - insieme a tutti gli altri collaboratori lombardi inesperti come noi di produzione cinematografica riuscimmo a essere liquidati (con quel poco che a noi sembrava molto) e versammo tutta l'intera somma guadagnata per il nostro primo, vero, impegnativo, stupendo "atelier"! Di fianco al Duomo era rimasta parzialmente indenne una parte della vecchia, vecchissima Milano che veniva indicata come il Bottonuto, nome derivato da una delle viuzze della zona. Fatta di piccole case ottocentesche abitate in parte da povera gente, in genere anziana, era per il resto invasa, dominata dai bordelli e dalla loro semplice e al tempo stesso complessa attività fatta di donnine, bische volanti, forzuti che si esibivano tra mangiatari di lamette dall'alito fiammeggiante e una buona dose di personaggi che nella zona venivano definiti "rocheté", rochettari (travestiti e viados non usavano ancora). Per l'esattezza i bordelli erano sette, a pochi metri di distanza gli uni dagli altri.
Lo studio che avevamo affittato si articolava intorno a uno spazio centrale ricavato da un cortile, coperto con un lucernario, incastrato in una delle più note e celebrate "case chiuse" italiane in via Chiaravalle. Situato a piano terra disponeva anche di un negozio, con l'ingresso separato dal bordello solo da un tavolato di mattoni, e di un'uscita ricavata sul retro in via Larga, raggiungibile tra angusti spazi e scomode scalette (tale ingresso, voluto dalla Questura, ci consentiva l'uso dell'entrata "condominiale" di via Chiaravalle solo per carico e scarico materiale).

Lo studio di via Larga, Milano, 1951

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