Archivio Attivo Arte Contemporanea
http://www.caldarelli.it

torna | home

Galleria d'Arte Il Salotto via Carloni 5/c 22100 Como
ANIMA-LI

mostra tematica interdisciplinare
21 febbraio al 1 aprile 2004

ILIA (ariete)
racconto di Giovanni Lischio

Ilia, giovane e bella, si sposò. Ilario, cinquantenne, l'industriale più ricco della città, che dal precedente matrimonio aveva avuto due figli, Elda e Fosco, rappresentava un buon partito. La donna, a caccia di ricchezza e di prestigio, non tardò molto a rivelarsi per quella che era. Una matrigna cattiva. Che non si lasciava sfuggire occasione per maltrattare, in mille modi, i due ragazzi. Soprattutto durante le assenze, numerose e frequenti, del padre. Solo al suo rientro, improvvisamente, diventava gentile e premurosa. Piena di attenzioni per il marito e di sorrisi per i figli. Poi, non appena ripartiva, tornava di nuovo arcigna. Fosco, che era il più grande, non poteva più soffrirla. Così, un giorno, salì sull'elicottero del padre e fuggì, insieme alla sorella. Non aveva ancora la patente di pilota, ma sapeva ugualmente tutto sull'arte di volare. Per Elda, invece, quello era il battesimo dell'aria. Aveva paura e continuava a chiedersi come avesse potuto cedere alle insistenze del fratello. Ora, quel volo, le sembrava una follia. Continuava a guardare, con gli occhi sbarrati e i nervi tesi, davanti a sé. A un certo punto, presa dal panico, si mise a gridare e cercò di alzarsi. Fosco, che fino allora aveva cercato di mantenere una relativa calma, cominciò pure lui ad agitarsi. Così facendo, finì per accrescere i timori di Elda che pregò il fratello di fermare il volo. Altrimenti, - disse - apro il portello e mi lancio nel vuoto. Fosco cercò invano, ripetutamente, di calmarla, promettendole di portarla sana e salva in un luogo dove nessuno li avrebbe scoperti. Lui, quel posto, lo conosceva bene. Aveva preparato, da tempo e nei minimi dettagli, ogni particolare di quella fuga. Adesso, non restava che mantenere il controllo di sé, fino all'arrivo. A pilotare l'elicottero avrebbe badato lui. Guidarlo, in fondo, era un gioco. Più facile e divertente che essere al volante di una macchina. Tutto inutile. Elda non udiva ragioni. Aveva paura dell'aria, del vuoto, delle nuvole, del mare sottostante. Voleva solo scendere, rimettere i piedi per terra. Fosco, nonostante la presenza di spirito e la saldezza dei nervi, a un certo punto cominciò a perdere il controllo del mezzo che iniziò paurosamente a sbandare. Pencolò prima verso sinistra, poi a destra e, infine, si girò su se stesso e prese a precipitare verso il basso. Sotto, immenso e solitario, c'era il mare che inghiottì il velivolo e i due occupanti. L'impatto fu violento. I mezzi di soccorso, subito giunti sul posto, riuscirono a recuperare solo alcuni frammenti dell'elicottero. Nessuna traccia, invece, dei corpi dei due fratelli. Solo a distanza di giorni il mare restituì il cadavere, rigonfio e pressoché irriconoscibile, di Elda. Ilario fece proseguire le ricerche fino a quando lo convinsero a desistere, perché ormai non c'era più speranza di ritrovare vivo il figlio e perché le condizioni del mare, nel frattempo, erano diventate tali da sconsigliare qualsiasi uscita. Addolorato, tornò a casa e fece celebrare i funerali con due casse. Una, piena, con il cadavere di Elda. L'altra, vuota, con sopra una grande corona di fiori e una fotografia di Fosco che lo ritraeva sorridente, al posto di guida dell'elicottero fermo sul prato, immenso, che circondava la villa. Ilia, in gramaglie, con un vistoso paio di occhiali da sole, partecipò alla cerimonia mostrandosi addolorata per l'accaduto. In realtà, in cuor suo, esultava all'idea di essere rimasta sola a condividere la ricchezza, presente e futura, di Ilario. Il quale, terreo in volto, senza occhiali che lo proteggessero dalla curiosità morbosa dei presenti, per tutto il tempo dei funerali non distolse lo sguardo, neppure per un istante, dalle due bare allineate nella navata centrale della cattedrale. A presiedere la cerimonia c'era il vescovo della città che, all'omelia, pronunciò parole che toccarono il cuore di tutti. Ilia estrasse più volte, dalla borsetta nera di coccodrillo, un piccolo fazzoletto bianco per asciugare le sue finte lacrime. Poi, scese il silenzio. Ilia, intanto, spadroneggiava in casa e Ilario ritornò al suo lavoro. Ma, in cuor suo, non smise mai di pensare al figlio, né cessò di fare compiere ulteriori ricerche per ritrovarne il cadavere. Fosco, in realtà, era riuscito miracolosamente a salvarsi. Dopo avere perso i sensi, aveva trovato la forza per riemergere e si era messo a nuotare, fin quando aveva visto un tronco galleggiante e vi si era aggrappato con tutte le sue energie. Il vento aveva poi fatto il resto, conducendolo lontano, su una spiaggia deserta. Qui, si era rifugiato in un anfratto della roccia e aveva cercato di sopravvivere. Con sé non aveva niente e non era in grado di comunicare con nessuno. Si nutrì di erbe e dei frutti che crescevano spontanei. Cercò anche, ma senza successo, di catturare del pesce e della selvaggina. Ogni giorno, camminando prima lungo la costa e poi all'interno, sperava di incontrare qualche animale. Alla fine, lo trovò. Seguendo gli escrementi, Fosco riuscì a raggiungere un rifugio. Vi trascorse la notte e poi decise di mantenerlo come punto di riferimento, fin quando non riuscì a rintracciare l'animale. Non molto lontano vide che, oltre a un caprone, c'era pure un cane da pastore che si fece amico senza grandi difficoltà. Il problema, a quel punto, era procurarsi del cibo per sfamarsi. Alla fine, non trovando niente, decise di uccidere il caprone. La sua carne era molto dura e sapeva di selvatico, ma la mangiò ugualmente. Prima, però, gli tolse la pelle e l'appese a un albero. A guardia, ogni volta che scendeva a riva, vi lasciava il cane. Un giorno, finalmente, vide un'imbarcazione che si dirigeva verso il punto in cui aveva preso l'abitudine di accendere il fuoco per mandare segnali di fumo. Era una grossa imbarcazione privata, che il padre aveva noleggiato per proseguire le ricerche del figlio. Quando gli uomini dell'equipaggio scesero, si videro comparire innanzi un giovane sporco e con la barba lunga. Non somigliava affatto alla foto che portavano con sé, ma ogni loro dubbio venne fugato quando la mostrarono a Fosco. Risalì in fretta verso il rifugio, prese il cane e la pelle e si imbarcò con i suoi salvatori. Quando scese, chiese di non rivelare la sua identità a nessuno, si fece consegnare dei soldi e un telefonino. Dal cellulare, non molto dopo, compose il numero di casa. Camuffando la voce, chiese di parlare con la matrigna. Le disse, senza troppi giri di parole, che aveva le prove che Fosco era vivo. Se voleva incontrarlo, doveva presentarsi da sola e con una grossa cifra. Attese la risposta, mantenendo premuto il tasto record di un registratore palmare acquistato poco prima. Poi, con calma, chiamò suo padre. Gli disse, semplicemente, di venirlo a prendere con la macchina. Gli fece ascoltare la conversazione telefonica e poi gli suggerì un'idea. Il giorno dopo l'imbarcazione partì di nuovo, ufficialmente per una breve crociera. A bordo, oltre all'equipaggio, c'erano Ilario, sua moglie Ilia e, con i capelli lunghi e la barba arruffata, Fosco. Al guinzaglio, reggeva il cane da pastore. Quando attraccarono, Ilia non voleva scendere. Disse che il posto non le piaceva e, di fronte all'irremovibilità di Ilario, cominciò a dare in escandescenze. Fu a quel punto che Fosco estrasse dalla tasca il piccolo registratore e le fece ascoltare la conversazione. La donna cercò in tutti i modi di difendersi, dicendo che si trattava di un ignobile trucco, che lei non pensava affatto le cose che aveva detto in un momento di tensione nervosa. Ma fu tutto inutile. Due uomini dell'equipaggio la presero e la costrinsero a scendere. Insieme, fecero un lungo tratto di strada tra i monti, finché giunsero al rifugio. Qui l'abbandonarono. Fosco estrasse dalla sacca, che aveva portato con sé, la pelle di caprone e l'appese a un albero. Poi, prima di allontanarsi, liberò il cane dal guinzaglio e lo mise di guardia. Perché non scappasse.

IL MOSTRO (pesci)
racconto di Giovanni Lischio

Telio era quello che si dice un mostro di natura. La quale, nel suo caso, davvero, pareva si fosse divertita a concentrare ogni bruttezza in un'unica persona. Gigante di statura, possedeva due mani prensili, simili a quella di una scimmia. E, della scimmia, aveva tutto il resto del corpo. Soprattutto il viso, che sembrava la conferma vivente della teoria di Darwin. Ebbene, Telio, l'essere orrendo che tutti rifuggivano al solo vederlo, aveva invece un animo sensibile. Proprio così, sensibile. Delicato e romantico. Facile a innamorarsi. Ma non si innamorava, come si potrebbe facilmente pensare, dell'anima gemella. Pari, in bruttezza, a uno come lui. Nient'affatto. La pensava, la sognava, la voleva bellissima. E bellissima, davvero, era Tea, la fanciulla a cui, un giorno, dichiarò il suo amore. Una dichiarazione come quelle che si fanno oggi. Virtuale. Notti intere passate al computer a scrivere, e a ricevere, messaggi. Una corrispondenza fittissima, assillante, senza respiro. Un diluvio, dolcissimo, di frasi d'amore. I pensieri che diventano parole e le parole che si fanno pensieri. Un cortocircuito che, alla fine, lasciava entrambi spossati. Telio, spesso, era addirittura febbricitante. Poi, un giorno, finalmente, l'incontro. Lei, vestita di chiaro, sembrava la dea della bellezza. Telio, vedendola, cadde in ginocchio, grosso quant'era, con la testa fra le mani, piangente. Lei, invece, la ragazza dalla bellezza vertiginosa, poco mancò che svenisse. Riuscì solo, con grandissimo sforzo, a cacciare un urlo e a fuggire. Fuggì più che poté, girando, ogni tanto, lo sguardo per vedere se fosse inseguita. Telio, ruggendo come un forsennato, ansimante, continuava a rincorrerla. Ma, più le diceva di fermarsi, di non avere paura, che non era affatto quello che appariva, e più lei, inorridita, scappava. Alla fine, spossata, giunse sulle sponde di un fiume. Vedendola in pericolo, un pescatore si offrì di trasportarla sull'altra riva. Quando Telio arrivò, era ormai tardi. La barca aveva preso il largo e lui sentì cadergli addosso il mondo. Si maledisse. Maledisse il giorno e il luogo in cui era nato. Maledisse suo padre, sua madre, i nonni e gli antenati. Ma, soprattutto, maledisse di non essere agile come la fanciulla. Perché, pensava, e gridava con tutto il dolore che gli usciva da quel corpaccio, se fosse stato più veloce la ragazza non gli sarebbe sfuggita di mano. L'avrebbe presa. E le avrebbe detto il suo amore. Le avrebbe fatto conoscere tutta la ricchezza del suo animo sensibile. E l'avrebbe resa felice. Sarebbe stata la sua principessa. La sua dea. Tutto, tutto, sarebbe stato per lei. E lei per lui. Invece, eccola lì, sulla barca, con uno sconosciuto. Con uno sconosciuto, continuava a ripetersi, con uno sconosciuto. Io, invece, diceva a voce alta, in ginocchio, la conosco. Ho trascorso notti intere a sentire il suo respiro. E a trasmetterle il mio. Conosco i suoi pensieri, i suoi sentimenti. E lei conosce i miei. E lei, e lei, e lei… ripeteva all'infinito. Quando ebbe finito di urlare all'acqua del fiume la sua disperazione, vide che c'era una barca legata a una boa. Ruppe la fune e cominciò a remare con foga. Non era scattante, ma la forza non gli mancava e la sentiva raddoppiarsi, come se fosse un alleato. Credette, in quel momento, al miracolo di fare ancora in tempo a rivederla. Le voleva almeno parlare. Soltanto parlare. Intanto che remava, diceva, come se la fanciulla fosse presente, le frasi che aveva imparato a memoria e che gli uscivano spontanee dal cuore. Perché lui era così. Brutto di fuori, ma nobile dentro. E gentile. - Gentile? - scattò, interrompendo di remare e scrutando l'acqua del fiume. - Gentile? E perché dovrei essere gentile con chi non è gentile con me? E quel pescatore? Se lo prendo, lo strozzo. Con queste mani. E rituffò pesantemente i remi nell'acqua, ansimando e imprecando, mentre spingeva in avanti la barca con violenza. Il pescatore e la ragazza, intanto, erano già arrivati dall'altra parte del fiume. Videro la barca che si dirigeva verso di loro e si affrettarono a cercare un nascondiglio. Il pescatore aveva, in paese, un parente, al quale chiese ospitalità. Tea, una volta al sicuro, si mise a raccontare la sua disgrazia. Intanto che raccontava, sentiva svanire l'angoscia. Il pescatore e il suo parente l'ascoltavano, increduli. Telio, appena sceso dalla barca, cominciò a chiedere a tutti quelli che incontrava se avessero visto scendere da una barca un uomo e una donna. Nessuno gli rispondeva. Anzi, gli interpellati, provavano fastidio anche solo a fermarsi. Al colmo della disperazione, Tullio, afferrò il primo malcapitato e con una sola mano lo sollevò in alto, minacciando di scaraventarlo nel fiume se non gli avesse dato indicazioni. Il poveretto, spaventato a morte, rispose la prima cosa che gli venne in mente. E cioè, che li aveva visti dirigersi verso l'albergo dei Tre Re, lì vicino. L'albergo c'era, effettivamente, a pochi passi dalla riva. Quando lo udirono, brutto com'era, e tutto spiritato, domandare conferma dell'arrivo dei due giovani, quasi non trovavano le parole per dirgli che no, nell'albergo, quel giorno, non era giunto nessuno. E gli mostrarono il registro delle presenze. Telio lo guardò appena. Poi, con un gesto di stizza, lo strappò in due e lo scaraventò lontano. - Ditemi dove sono, - cominciò a minacciare, - ditemi dove sono o distruggo l'albergo. E, senza neanche attendere una risposta, afferrò una poltrona e la spaccò lanciandola violentemente contro il muro. Il proprietario, bianco come un cencio, fece cenno alla moglie di provare a telefonare ai carabinieri. Telio però fu lesto e l'afferrò per un braccio, costringendola ad allontanarsi dal bancone. La telefonata alla stazione dei carabinieri partì ugualmente, da parte di un cameriere che, spaventato non meno dei titolari, aveva assistito alla scena. Quando giunsero, dovettero fare molta fatica a calmarlo e a farlo salire sulla loro camionetta. Fu messo al fresco, fino al giorno dopo. La notizia dell'arresto di un energumeno, che aveva seminato panico all'interno dell'albergo dei Tre Re, si sparse ben presto in tutto il paese rivierasco. I primi a parlarne furono i proprietari che, a chi chiedeva ulteriori particolari, raccontavano di non avere mai visto, in tutta la loro carriera, un individuo spaventoso come quello che aveva fatto irruzione nel loro albergo. Anche Tea venne a conoscenza dell'accaduto. Il pescatore, e il suo parente, le consigliarono di approfittare della circostanza per fare subito ritorno al paese. Tea, tutta la notte, non aveva chiuso occhio. Per la paura, certo. Ma, anche, e soprattutto, perché non aveva fatto altro che pensare a tutto ciò che quell'uomo le aveva scritto. Al suo pianto. All'essersi gettato in ginocchio, come in adorazione. E tutta la notte, magicamente, il volto di quel mostro non era riuscito più a vederlo nella sua bruttezza. Ripensava, solo, alle parole bellissime che le aveva inviato via internet. E così, quando venne a sapere che era stato arrestato, anziché fuggire, decise di andarlo a trovare. Si presentò alla stazione dei carabinieri e raccontò tutto. Poi, chiese di poterlo vedere. Telio, che aveva pensato di mettere fine ai suoi giorni impiccandosi, cadde, per la seconda volta, in ginocchio. E, in quella posizione, senza che Tea riuscisse a farlo alzare, le disse tutto quello che non era riuscito a dirle quando era fuori, libero. Alla fine, la pregò di lasciarlo solo. Pagati i danni all'albergatore, fu immediatamente fatto uscire di prigione. Il pescatore si offrì di riaccompagnare Tea al paese. Telio salì sulla barca rubata, che provvide a restituire al legittimo proprietario, con tante scuse e un'adeguata ricompensa I due, entrambi pacificati, si strinsero la mano e si salutarono come vecchi amici. Una volta tornati alle rispettive abitazioni, ripresero a scambiarsi messaggi d'amore. Sempre più appassionati. A distanza. Come due amanti antichi.

Giovanni Lischio Autore di poesie, favole e racconti, vive a Como.
Ha pubblicato: 87 epigrammi, 1974 - Uno a te, uno a me, 1976 - Il letto di Procuste, 1980 - E non sa Como, 1982 - Il fiore del desiderio, 1995 - La porta delle meraviglie, - 1999 Come per magia, 2000 - 14 febbraio. 2002 - Nomen omen. 2003 - Parole d'aria 2003

torna | home

Il Copyright © relativo ai testi e alle immagini appartiene ai relativi autori per informazioni scrivete a
miccal@caldarelli.it